Rischio spread senza Draghi
Senza il bazooka di Draghi bisogna pensare alla crescita
di Enrico Cisnetto - 07 gennaio 2018
Il tetto si ripara quando c’è il sole, ma noi stiamo con il naso all’insù ad aspettare la pioggia. Se con le misure di politica monetaria ultraespansiva della Bce, negli ultimi anni Mario Draghi – da una parte disarmando la bomba della crisi dei debiti sovrani, dall’altra provocando una sensibile riduzione degli interessi e dello spread sui titoli di Stato – ha “comprato tempo” regalandolo all’Italia (non solo, ma soprattutto), in questo inizio di 2018 il nostro enorme debito pubblico è ancora tutto lì, mentre le misure “non convenzionali” della Bce si avviano a conclusione. E, visto che fino ad ora quel tempo “comprato” lo abbiamo usato poco o niente, meglio prepararsi prima che arrivi la tempesta.
L’ultimo consiglio direttivo dell’Eurotower del 2017 ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse, confermando che rimarranno bassi a lungo e ben oltre le fine prevista del Quantitative Easing. Tuttavia, questo bazooka, che aveva cominciato a sparare a inizio 2014, a partire da gennaio è già stato dimezzato nella sua potenza (gli acquisti di titoli sono scesi da 60 a 30 miliardi di euro al mese) anche se la sua conclusione è stata posticipata a settembre. E si potrebbe anche andare avanti fino a raggiungere un livello di inflazione prossimo (ma inferiore) al 2%, dice la Bce, con rassicurazioni che proteggono la tenuta della moneta unica (“whatever it takes”, remember?), ma che non sono né saranno mai una soluzione definitiva, tantomeno un alibi per non agire. Al contrario, è doveroso programmare una strategia per uno scenario opposto, e cioè nel caso che i tassi tornino a salire, a cominciare dai problemi che genererebbe un incremento del costo degli oltre 2300 miliardi di debito.
Le misure di Draghi, infatti, ci hanno fatto risparmiare decine di miliardi di oneri sui nostri titoli, visto che nel 2012, prima del bazooka, spendevamo 86 miliardi annui, mentre oggi siamo a 66,5, con un’economia di circa 20 miliardi, più del valore delle clausole di salvaguardia. Ora, potrà essere nel corso del 2018 o al massimo a inizio 2019, ma questa finestra di “denaro facile” si chiuderà. Oltretutto, oggi il principale compratore dei BTP italiani è proprio la Bce. Per tornare ad acquistare i nostri titoli le altre istituzioni finanziarie e le banche pretenderanno condizioni più vantaggiose, a tutto danno del costo del debito. E, complici incertezze politiche assai probabile dopo le elezioni, un rialzo dello spread potrebbe generare una tempesta perfetta.
Oltretutto, la medicina Bce che ha salvato la pelle all’euro ha inevitabili effetti collaterali. Per esempio, i tassi prossimi allo zero hanno messo in crisi la redditività di istituti bancari e fondi pensione. Inoltre, in tre anni la Bce ha comprato titoli per più di 2 mila miliardi, aumentando l’oceano di liquidità esistente, pericoloso soprattutto se si guarda ai derivati in circolazione: l’Esma stima che solo all’interno dell’Ue ve ne siano per un valore pari a 453 mila miliardi, mentre nel mondo, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, si arriva a 710 trilioni di dollari, 9 volte l’ammontare del pil planetario e il 25% in più di quelli esistenti nel 2007. Con il rischio, quindi, che scoppi una nuova bolla, simile a quella nata dai subprime americani dieci anni fa.
Le stagioni sono cicliche e certi ritorni sono eterni. Attrezziamoci. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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