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  • 20171001 - Per una crescita strutturale

Una nuova politica economica

Per una crescita strutturale

Investimenti pubblici e export, ecco come dare slancio alla ripresa

 

di Enrico Cisnetto - 02 ottobre 2017

Ci sono due modi per trasformare l’attuale ripresa congiunturale in una più solida crescita strutturale. Il primo (e principale) è mettere mano ad un programma di massicci investimenti pubblici. Ma i margini di bilancio sono strettissimi, e per bypassarli occorrerebbero coraggio e fantasia, doti che non appartengono alla politica di questo millennio. Dunque, in attesa che si metta mano alla spesa corrente, dializzando quote significative in investimenti in conto capitale, non rimane che la seconda modalità: incidere sul tessuto produttivo privato, convertendo il successo momentaneo nell’export in un fattore permanente di trasformazione del nostro capitalismo. Negli ultimi tempi la manifattura si è retta solo sull’export, prima come fattore di contenimento della recessione e poi come propulsore per spingere la ripresa, tanto che le esportazioni sono cresciute a ritmi più elevati di quelli tedeschi. In particolare l’export della meccanica viaggia ad una velocità (+5,6%) più alta delle analoghe filiere della Germania, tanto che, per esempio, la capacità produttiva dei costruttori di macchine utensili ha quasi saturato gli impianti (83%) grazie a ordini in media oltre i 6 mesi (il livello più alto dal 2008). Inoltre gli incentivi (superammortamento) hanno spinto i consumi interni di robot, tanto da rendere tripla (10,6% contro 3,6%) la crescita italiana rispetto a quella mondiale. Insomma, il Quarto Capitalismo italico sta facendo passi da gigante.

Ma non è tutt’oro quel che luccica. I problemi sono due. Il primo attiene alla numerosità delle imprese che in questo momento rappresentano la vera e propria locomotiva del Paese. Un’avanguardia produttiva che fatica ad arrivare al 20% del totale delle aziende, ma che è stata in grado di generare l’80% del valore aggiunto nazionale e l’80% delle esportazioni. Ai restanti quattro quinti, invece, il poco che rimane. Insomma, non mancano idee, start-up, storie di successo, e non solo nel settore delle macchine utensili – si pensi al chimico-farmaceutico, all’automotive o nell’energia – ma l’esercito che combatte la battaglia sulla nuova frontiera della competizione è troppo esile.

Non solo. Anche le realtà di maggiore rilievo non riescono a fare sistema e i campioni che pure abbiamo faticano a trainare tutto il resto del tessuto produttivo e a controbilanciare le asimmetrie. Sarà la frammentazione dei centri produttivi, l’assenza di capitali, la proprietà ancora troppo “familiare” o il sottodimensionamento delle aziende, ma non possiamo certo dire che la nostra manifattura sia pienamente entrata nel 4.0. Anzi. C’è un dato di Federmeccanica che ce lo dice: posto a 100 a inizio 2008 l’indice Ue, dieci anni dopo l’Italia è ancora a 74,2 punti, contro gli 81,6 della Francia, i 98,3 della Gran Bretagna e addirittura i 104,5 della Germania. Questo significa che le imprese internazionalizzate esportano non solo merci e servizi, ma anche gli output di filiera. La catena del valore si arricchisce altrove, le aziende diventano sempre di più apolidi.

Dunque, ci vogliono le infrastrutture digitali, una formazione adeguata, un ecosistema normativo e burocratico adatto. E con Industria 4.0 il governo ha dato una scossa, mettendo a disposizione risorse e indicando una strada. Ma ora anche gli imprenditori devono fare (di più) la loro parte. Il digitale non è solo il futuro, è soprattutto il presente. (twitter @ecisnetto)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.