Giù le mani dalla Legge Fornero
La riforma delle pensioni è stata dolorosa ma necessaria. Nessuno la stravolga
di Enrico Cisnetto - 17 settembre 2017
Giù le mani dalla legge Fornero. Certo perfettibile, probabilmente da considerare punto di partenza per una revisione ancor più radicale dei meccanismi previdenziali che ancora sono una “bomba sociale” inesplosa, è comunque l’unica unica vera riforma strutturale degli ultimi 20 anni. Quella che ha salvato l’Italia dal fallimento, nel 2011. Ma passata la paura, ogni volta che ci si avvicina alle elezioni, si cerca di smontarla. I settori più populisti della politica sbraitano, mentre chi sta al governo e chi vorrebbe andarci da eco alle richieste dei sindacati, che invocano sconti sui requisiti per la quiescenza delle lavoratrici madri, la fine dell’equiparazione dell’età della pensione tra uomo e donna e garanzie previdenziali per i giovani. Il primo tema, seppur legato a elementi concreti, come ha ricordato il presidente dell’Inps Boeri, rischia di provocare una riduzione dell’assegno. Quanto al secondo, sostenere che le donne siano meno performanti sul lavoro o, peggio, “angeli del focolare”, e debbano quindi andare in pensione prima degli uomini equivale a svilirle professionalmente e a dare un calcio alla invocata parità. Allo stesso modo, utilizzare le poche risorse a disposizione per provare a garantire la pensione di domani a giovani che non hanno un lavoro oggi è, come ho già sostenuto in questa sede, una palese inversione dell’ordine delle priorità e un clamoroso incentivo al “nero”. Il tutto in un contesto che laurea la nostra spesa previdenziale come la più “pesante” d’Europa (16,8% del pil).
Ora, il confronto tra sindacati e governo è stato rinviato a fine settembre, ma è augurabile che Poletti non ceda. Non tanto per il costo della misura, valutato in 1,2 miliardi, ma perché andremmo a rimuovere un ulteriore tassello dalla riforma che garantisce l’equilibrio, peraltro precario, del sistema previdenziale. Cui tanti colpi sono già stati inferti. Solo per fare un esempio, in 5 anni negli “esodati” sono stati fatti rientrare quasi 200 mila over 55 senza lavoro, al costo di 11,4 miliardi, cioè il 13% degli 88 miliardi di risparmi attesi fino al 2021. Certo, se si accorcia l’aspettativa di vita potrebbe avere un senso congelare dal 2019 l’età pensionabile a 67 anni. Ma i dati Inps dicono che, nonostante la legge Fornero, gli assegni anticipati di anzianità sono più di quelli di vecchiaia, con un’età media di 60,6 anni, mentre era 59,1 nel 2010. Inoltre, è bene non dimenticare cosa è accaduto dove non è intervenuta la riforma: le pensioni di invalidità civile, per esempio, in 19 anni sono raddoppiate.
Fin dalla riforma Dini, ho sempre pensato che fosse giusto aprire alla flessibilità in uscita, come corollario del definitivo passaggio dal retributivo al contributivo. Ma la flessibilità non può essere il chiavistello per scardinare ciò che ci ha salvato dal default. E i provvedimenti della legge di Bilancio 2017 (Ape sociale e le misure sui “precoci”) hanno già risolto il problema di coloro che devono anticipare l’uscita dal lavoro per esigenze reali.
Potrà anche essere elettoralmente conveniente coccolare i 18 milioni di pensionati e cercare di lisciare il pelo a quelli futuri, ma non risponde a principi di equità intergenerazionale, né serve a rilanciare lavoro e crescita. La riforma Fornero è stata dolorosa, ma necessaria, per un Paese che era allo sbando. E che allo sbando non deve assolutamente tornare. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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