Taglio a fattor Comune
Il taglio dei Comuni e delle società controllate produrrebbe un risparmio da 3 miliardi
di Enrico Cisnetto - 24 luglio 2017
E se, dopo aver (quasi) finta di sistemare le Province, usassimo l’ultima scorcio di legislatura per dare una bella sforbiciata ai Comuni? In Italia sono troppi, e più sono piccoli e meno funzionano. Non a caso, dei 556 dissesti finanziari censiti dal 1989 a oggi (di cui 450 nel Meridione), il 40% avviene in quelli al di sotto dei 2.000 abitanti, un altro 20% fino a 5.000 e il restante 40% in quelli fino a 60.000, che comunque non sono megalopoli. Questi dati della Fondazione Nazionale Commercialisti dimostrano che l’eccessivo decentramento, che sarebbe meglio chiamare frammentazione, è sinonimo automatico di inefficienza. Perché le piccole amministrazioni incontrano più difficoltà nell’adeguarsi alle norme, organizzare gli uffici, ottimizzare le risorse e specializzare il personale. Tra l’altro, negli ultimi 5 anni, i default finanziari sono triplicati, segno di un trend negativo che le ultime riforme non hanno contrastato.
Per esempio la legge Delrio, che oltre all’abolizione delle Province prevedeva anche l’accorpamento dei Comuni sotto i 5.000 abitanti, è rimasta in mezzo al guado perché erroneamente messa in cantiere come antipasto della riforma costituzionale, poi risultata indigesta. Fallita quest’ultima, è rimasto il disastroso decentramento amministrativo, che pesa sui conti pubblici e paralizza il Paese. Oltre a 20 Regioni (di cui 5 a statuto speciale), 8.000 Comuni (nel 2016 con 29 fusioni ne sono stati soppressi 75 e il numero complessivo è sceso a 7.998), oggi abbiamo ancora 76 Province vive e vegete, 14 Città metropolitane e quasi 500 enti intermedi (nonostante nella riforma Delrio il limite fosse 90) tra gestori di rifiuti, servizi idrici, autorità di bacino e consorzi di bonifica. Cui si aggiungono municipalizzate e società varie, stagno di clientelismo e inefficienza: sono 8893 con 784 mila dipendenti, di cui 7230 attive, spesso con soli dirigenti e senza neppure un impiegato. Di queste il 29% sono in perdita, con un rosso complessivo di 700 milioni l’anno. E se dal 2010 ne sono state cancellate 828, altre 1173 ne sono state create, poiché ogni Comune si sente libero di fare come vuole. Insomma, una proliferazione di centri di spesa e di poteri di veto.
Si dirà: i Comuni sono la storia d’Italia. Vero, non c’è bisogno di essere campanilisti per ammetterlo. Ma è altrettanto vero che i Comuni, anche se attigui, invece di fare “rete”, si fanno concorrenza. Per esempio, nessuno cede i propri surplus a chi è in difficoltà, nonostante che ogni trasferimento debba comunque essere pareggiato negli anni successivi. Dunque, considerato che sono ben 5.564 i Comuni sotto i 5.000 abitanti, il 69,7% del totale, introdurre quello come taglio minimo non sarebbe poi così traumatico, anche perché alla soglia ci possono arrivare attraverso fusioni. E poi, è bene sapere che dai Comuni passa la quota maggiore di investimenti pubblici, ma sono sempre meno quelli spesi in conto capitale (10 miliardi nei primi 5 mesi dell’anno) nonostante l’abrogazione del Patto di stabilità interno e, soprattutto, un surplus finanziario complessivo di 3 miliardi nel 2015 e di 6,4 nel 2016. Inoltre, è stato calcolato in almeno 3 miliardi annui il risparmio che si può realizzare sulle controllate. Ma, visto che da soli hanno dimostrato di non volersi autoriformare, l’unica soluzione è quella di ridurre il numero dei Comuni. Coercitivamente. (twitter @ecisnetto)
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