L'economia dello Ius soli
Perché gli stranieri sono già un vantaggio per l'economia italiana
di Enrico Cisnetto - 18 giugno 2017
Lo ius soli è diventato terreno di brutale quanto stucchevole lotta politico-ideologica, ma quella degli immigrati è prima di tutto una seria questione economica. Due anni dopo l’approvazione da parte della Camera e sotto il peso di migliaia di emendamenti (48 mila solo quelli presentati dalla Lega), la legge sulla cittadinanza potrebbe vedere la luce, se non fosse che al Senato si è scatenata una bagarre – da notare: sull’ordine dei lavori – che dimostra una volta di più come l’interesse non sia quello di cercare soluzioni.
Eppure, basterebbe guardare qualche numero. L’Italia è un paese demograficamente sbilanciato, che sta invecchiando e si sta svuotando, con più decessi che nascite all’anno (142 mila). Senza gli immigrati questo trend sarebbe ancora più negativo, con un deficit di 205 mila unità. Poiché abbiamo un sistema pensionistico a ripartizione (chi lavora paga la pensione a chi non lavora più) e non a capitalizzazione (ogni lavoratore accumula contributi per il futuro), il mantenimento degli anziani di oggi e di domani si regge anche sul lavoro degli immigrati. Che, dati alla mano, sono molto più giovani degli italiani (32 contro 45 anni l’età media) e versano 11 miliardi di contributi pensionistici, ricevendone meno di 3 in cambio. Insomma, una benedizione per l’Inps. Ma anche per l’erario. Secondo i dati sempre precisi del Centro Studi Idos, pur essendo l’8,3% del totale della popolazione, gli stranieri sono il 10,5% degli occupati (escludendo i registrati ma non residenti) e producono l’8,6% del pil. Segno che lavorano più degli italiani. Tanto che mentre le attività imprenditoriali nostrane sono calate del 6,5%, quelle “immigrate” sono cresciute del 5%, raggiungendo quota 550 mila, pari al 9,1% del totale. E, infatti, i non italiani versano in tasse 2,2 miliardi in più allo Stato di quanto ricevano come prestazioni. Infine, hanno una propensione al consumo doppia della nostra (dati Bankitalia), pesano meno sulla spesa per i farmaci (2,6% del totale per l’Istituto Superiore di Sanità) e sui costi della sanità (il 3,3% per l’Agenzia sanitaria nazionale).
Dunque, quando si dice che occorre integrare e valorizzare questa risorsa, non ci sono solo ragioni umanitarie e culturali, ma anche e prima di tutto economiche. Si possono discutere le strategie migliori, ma per un paese statico e vecchio come il nostro, il beneficio economico dell’immigrazione è incontestabile. Eppure, oggi gli immigrati pagano le tasse senza votare (mentre gli italiani residenti all’estero votano senza versare un centesimo) e un ragazzo nato qui e che va regolarmente a scuola, non è italiano fino ai 18 anni. La platea interessata alla nuova legge – per cui se uno dei genitori ha un permesso di soggiorno permanente o se il minore frequenta la scuola da 5 anni, può diventare italiano – è di circa 800 mila persone, con 60 mila potenziali “nuovi italiani” ogni anno. Non ha senso escludere a priori questa risorsa dal nostro futuro. Anche perché oggi un migrante su cinque è un minore che domani potrebbe essere italiano, integrato e funzionale, e il 10% degli under 18 che vivono in Italia è straniero.
Sia chiaro, la legge è piena di difetti e deve essere migliorata, per esempio imponendo la conoscenza della lingua o l’accettazione esplicita di alcuni principi democratici. Ma non c’è dubbio che di immigrazione, e quindi di ius soli, abbiamo bisogno. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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