Meno male che Draghi c’è
L'Italia ha poco tempo: 12 mesi per ridurre il debito pubblico
di Enrico Cisnetto - 11 giugno 2017
Meno male che Draghi c’è. Anche se, prima o poi, dovrà terminare la politica monetaria espansiva che in questi anni ha contrastato la crisi ed evitato il disastro, nell’eurozona come e soprattutto in Italia. E il problema è che non ci stiamo per nulla preparando al dopo. Pur scontentando qualche monetarista, giovedì scorso il Consiglio direttivo della Bce ha confermato “senza posizioni sfavorevoli” la necessità di non interrompere l’espansione monetaria. Ancora troppi i rischi e troppo incerta la ripresa per avviare prima il tapering – ossia la progressiva diminuzione degli attuali 60 miliardi di acquisti mensili di bond – e poi procedere con il rialzo dei tassi. Innanzitutto, perché le stime per l’inflazione nell’eurozona sono state tagliate rispetto alle previsioni precedenti (1,5% e 1,3% tra quest’anno e il prossimo) e restano quindi ancora lontane dal target del 2%. Poi perché la crescita del livello medio dei prezzi non deve essere “drogata” da fattori esogeni, come il costo delle materie prime, ma si deve basare sull’aumento dei salari, che attualmente non c’è. Senza contare che la crescita del pil, pur incoraggiante, in prospettiva è declinante (quest’anno +1,9%, il prossimo +1,8%, tra due +1,7%), e dunque ancora così bisognosa di stimoli che qualcuno sostiene che addirittura si debba aumentare e prolungare il QE.
In ogni caso l’exit strategy sarà graduale, anche perché oltre ai rischi interni all’eurozona (compresi quelli politici, vedi Regno Unito e Italia) ci sono quelli, assai minacciosi, della geopolitica e della geoeconomia: il pericolo di un brusco rialzo del prezzo del petrolio, le crisi bancarie – la vicenda Banco Popular dimostra che non ci sono solo in Italia, anche se in Spagna l’hanno risolta in una settimana – le tensioni internazionali (Qatar, Nord Africa, Russia, Corea del Nord) sono solo alcune delle più recenti. Le previsioni di alcuni analisti, per cui entro il 2022 si dovrebbe scatenare un’altra tempesta finanziaria, anche se plausibili per fortuna sono solo ipotesi. Ma è già un dato di fatto che oggi circoli nel mondo una quantità di derivati maggiore di quella che c’era nei giorni precedenti allo scoppio della crisi del 2007. I mercati anticipano sempre le tensioni, tanto è vero che lo spread italiano è sceso dopo il fallimento della legge elettorale, e quindi l’allontanarsi di elezioni in un clima di imprevedibilità, mentre la Borsa britannica è crollata di fronte al rischio di instabilità parlamentare.
Ma super-Mario non è da meno in quanto a capacità di anticipo. Stavolta lasciando intendere che, prima o poi, l’era dei tassi a zero finirà. Ma, mentre i mercati sono sempre all’erta, gli Stati spesso restano a guardare. L’Italia, per esempio, ha reattività zero. Eppure dovrebbe esserlo, perché il miglioramento dei conti pubblici è in gran parte dovuto proprio alle scelte della Bce. Nel 2012, prima del bazooka di Draghi, abbiamo speso 86 miliardi di interessi sul debito, quest’anno siamo scesi a 66,5, un quarto in meno, pari a circa l’1,3% del pil. Ora, potrà essere nel 2018 o anche più tardi, ma questa finestra di “denaro facile” si chiuderà. Con un debito che si avvicina ai 2300 miliardi, avremo sicuramente un problema grave. Che richiede interventi determinanti entro i prossimi 12 mesi. Altrimenti saranno guai grossi. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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