Fiducia sulla concorrenza
Il ddl concorrenza langue in Parlamento da 2 anni. Serve un voto di fiducia per approvarlo
di Enrico Cisnetto - 07 maggio 2017
Serve un voto di fiducia. Lo so che in Parlamento se ne abusa, e che i governi dovrebbero ricorrervi solo in casi estremi. Ma questo è uno di quelli. Perché dopo più di due anni di travaglio parlamentare, il ddl concorrenza non è ancora nato e il voto al Senato, arrivato dopo 18 lunghi mesi, non è l’ultimo. E allora, per prevenire il rischio di aborto, è necessario blindare il testo attuale nel passaggio alla Camera, il 29 maggio, che deve assolutamente essere finale. E siccome sono gli stessi meritori senatori protagonisti della faticosa approvazione a palazzo Madama del ddl, Luigi Marino in testa, ad essere preoccupati di cosa succederà a Montecitorio, al premier Gentiloni non resta che porre la questione di fiducia.
Presentato da Renzi in pompa magna nell’aprile 2015, il testo è cresciuto dagli iniziali 32 articoli agli attuali 74. E certo fu un errore di presunzione voler inserire tanti (troppi) temi delicati in un unico contenitore: assicurazioni, banche, fondi pensione, telefonia mobile, carburanti, energia, professioni (avvocati, notai, farmacie), turismo, servizi postali, sanitari e di trasporto. Sarebbe stato meglio affrontare una questione alla volta, con un provvedimento che ogni 12 mesi potesse regolare un settore, anziché vedersela con tutte le corporazioni schierate come un sol uomo. Tuttavia, visto che dal 2009 ancora non abbiamo nemmeno riempito la prima casella, è proprio il caso di mettere un punto e andare avanti. Poi, visto che la legge è annuale, l’auspicio è che il metodo dell’uno alla volta venga usato in futuro.
Anche perché ormai il testo è sostanzialmente immodificabile, con delicati equilibri in settori complessi, come quello dell’Rc auto, che se venissero toccati potrebbero far cadere tutto il castello. E poi già è difficile approvare il testo così com’è, figuriamoci con nuove modifiche. Certo, tra stop and go, veti, compromessi e pause elettorali – come quella imposta da Renzi nei 4 mesi di vigilia del referendum – molto si è perso e molto si è confuso. Ma se su diversi aspetti – come taxi, farmaci di fascia C, professioni e molto altro – ci sarebbe da intervenire ex novo, su altri qualche “laccio e lacciuolo” verrebbe sciolto: l’ingresso dei capitali nelle società di avvocati, l’abolizione del tacito rinnovo nelle polizze danni, gli sconti per gli automobilisti virtuosi, l’anticipo sui fondi pensione in caso di fine anticipata del lavoro. Ripartire da capo sarebbe folle.
Secondo l’Osservatorio sulle liberalizzazioni, l’apertura alla concorrenza potrebbe valere fino a 23 miliardi, e secondo il governo, un punto di pil all’anno fino al 2020, per una crescita complessiva del 4,16% dei consumi, del 3,7% degli investimenti, dell’1,66% dei salari reali. Soprattutto, non si tratta solo di liberare energie che già esistono, ma permettere che se ne creino di nuove. Il terziario in Italia, un mercato di circa mille miliardi che copre più del 74% del pil, è in passivo nella bilancia commerciale per 4,2 miliardi (mentre segna +23 in Germania e +90 nel Regno Unito), anche perché deve combattere con rigidità, oligopoli, corporazioni, regole e regolette. Ora, se “l’ottimo è nemico del bene” – che in politica diventa “nemico del fare” – pur senza particolari entusiasmi è fondamentale portare a casa questa prima legge “annuale” sulla concorrenza. Entro giugno. Per poi andare avanti. (twitter @ecisnetto)
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