Meglio l'Iva del taglio agli investimenti
L'aumento dell'accisa è il male minore
di Enrico Cisnetto - 23 aprile 2017
Per ora è rimasto un ballon d’essai, ma l’aumento dell’Iva come fattore di riequilibrio dei conti pubblici, per quanto scomodo, non è un’ipotesi così peregrina. Prima di tutto, perché quando la crescita è anemica e la coperta è corta, piuttosto che indorare la pillola con la “narrazione” stile #italiariparte, sarebbe più utile ricorrere all’arma rivoluzionaria della verità, e dunque ammettere che mentre la ripresa economica si rafforza ovunque nel mondo noi rallentiamo, crescendo la metà della media dell’eurozona. Secondo il Fondo Monetario, infatti, sia quest’anno che il prossimo ci fermeremo a +0,8%, rispettivamente tre e due decimali in meno delle (more solito) ottimistiche previsioni del governo. Stime, quelle dell’esecutivo, sui cui hanno sollevato dubbi anche Istat, Ufficio Parlamentare di Bilancio e Bankitalia. Allora, forse, è arrivato il tempo di una strategia economica diversa da quella esclusivamente dedita alla ricerca del consenso. Inoltre, Corte dei Conti e Upb hanno dichiarato che, senza risorse aggiuntive – che certo una crescita anemica non fornisce – sarà difficile evitare l’aumento dell’Iva, pari a 19 miliardi di euro per il 2018 e 23 per il 2019. Il ministro Padoan – con la sponda di Calenda, Bankitalia e Confindustria – aveva rilanciato la proposta dell’Ocse di un innalzamento delle aliquote, eventualmente da utilizzare per uno taglio del cuneo fiscale. Ma le barricate erette un po’ da tutti, Pd renziano in testa, lo hanno indotto ad abbandonare, almeno per ora, l’idea.
Eppure, è evidente che con le clausole di salvaguardia innescate, trovare risorse per ridurre il carico fiscale complessivo è assai difficile. Tanto che, al di là degli annunci, il Def è vago, e le alternative per trovare quattrini sono qualche operazione una tantum, la (s)vendita di quote di società pubbliche (cosa diversa dalle privatizzazioni) o la riforma del catasto in una fase in cui il mercato immobiliare è depresso. L’aumento dell’Iva, invece, graverebbe meno sui costi di produzione e dunque sull’export, unico vero traino della nostra economia. Inoltre, l’operazione contribuirebbe ad allontanare lo spettro della deflazione. Anzi, una piccola fiammata inflazionistica aiuterebbe a svalutare un pochino un debito pubblico che continua a crescere (nel 2017, secondo la Commissione Ue, ciò avverrà solo in Italia), rendendo meno onerosi gli interessi proprio ora che lo spread è stabilmente sopra i 200 punti e si intravede la fine della politica monetaria espansiva.
Certo, ritoccare le aliquote Iva non fa bene ai consumi. Su questo la Confcommercio ha ragione. Ma qui si tratta di valutare quale sia il male minore. Le simulazioni di Confindustria ci dicono che i danni maggiori derivano dal cuneo fiscale, non dall’Iva. E non dobbiamo nemmeno dimenticare che in Italia abbiamo quattro aliquote (al 4%, al 5%, al 10% e al 22%), mentre, per esempio, in Germania solo due (al 7% e al 19%) e che, quindi, una riorganizzazione è necessaria. E questa può essere l’occasione buona. Anche perché la differenza tra gettito Iva potenziale e reale è intorno ai 40 miliardi, e questa “tassa occulta” va colpita.
Insomma, se per evitare il rincaro dell’Iva si tagliano gli investimenti pubblici, aumentano le tasse sul lavoro e sugli immobili, si (s)vendono i gioielli di Stato, per poi distribuire i soldi a pioggia per comprare consenso, ben venga l’Iva. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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