60 anni di Europa
Via la retorica e un'idea di futuro. Altrimenti sarà inutile festeggiare l'Europa
di Enrico Cisnetto - 19 marzo 2017
Oltre alle celebrazioni, l’Europa si regali qualcosa di concreto, altrimenti i primi 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma con cui l’Europa è nata, che si festeggiano questa settimana, saranno anche gli ultimi. Il risultato del voto in Olanda non deve illudere, il reflusso nazional-populista non è stato sconfitto. Se l’Unione europea resta paralizzata dai veti incrociati, dalle regole ragioneristiche sui bilanci e dal timore di agire, infatti, è solo questione di tempo.
L’inflazione sta salendo, avendo superato nel dato tendenziale di febbraio il 2% in Europa e l’1,6% in Italia, anche se spinta principalmente dai prezzi delle materie energetiche. Per questa e altre ragioni, tra cui le scelte della Federal Reserve, la “finestra di opportunità” creata dalla politica monetaria della Bce, quale unica istituzione e sola strategia veramente europea, sta per chiudersi. Le occasioni, finora, non sono state sfruttate, ed è vero che ogni Paese ha le sue colpe – l’Italia in particolare – ma per recuperare la fiducia degli europei, contrastare le sfide di immigrazione e disoccupazione, fronteggiare l’avanzata degli antieuro, serve la crescita economica. Nient’altro. L’esperienza di questi anni dimostra che per uscire dalla crisi non è sufficiente rientrare dal deficit ad un ritmo più lento del previsto. L’Italia, così facendo, ha perso tre anni.
Ma se ciascun paese ha le sue colpe, è chiaro che l’Ue non può limitarsi al “piano Juncker”. Servono investimenti pubblici di ben altra entità, anche in deficit (al posto di spesa corrente improduttiva), oltre a misure concrete realizzabili nel giro di qualche mese. Per esempio, nella ratifica del Fiscal Compact dovrebbe essere prevista l’esclusione dai parametri di bilancio proprio degli investimenti in conto capitale. Poi, ci sono i suggerimenti che l’Atlantic Council ha formulato, come l’introduzione di una flessibilità dello 0,5% del pil che porterebbe ad un totale di 84 miliardi di investimenti pubblici nel biennio 2017-2018. Necessari come il pane. Di fronte a flussi migratori inarrestabili (l’immigrazione clandestina è passata da 107 mila persone nel 2013 a 1,8 milioni nel 2015), che provocano sconquassi anche economici, oltre che sociali, si potrebbe poi ripristinare immediatamente, nel giro di qualche mese, il principio degli accordi di Schengen, rafforzando le frontiere esterne e ridistribuendo i migranti tra gli Stati. Una condivisione immediata in senso federale potrebbe anche essere l’aumento dall’1% al 3% del pil europeo destinato al budget dell’Unione (negli Stati Uniti il budget federale è del 22%). Poi, bisognerebbe corroborare gli investimenti pubblici con quelli privati, soprattutto in pmi e start-up, che nell’Ue scarseggiano, vista la media dell’1,8% del pil, contro il 4,2% della Corea del Sud, il 3,5% del Giappone, il 2,8% degli Usa. Per farlo serve un mercato unico dei capitali, in modo da ridurre il “bancocentrismo” (le banche finanziano l’80% dell’economia, a fronte del 20% degli Stati Uniti) e liberare le possibilità del venture capital attraverso agevolazioni fiscali e normative. Inoltre, dall’integrazione del mercato dei capitali a quello dell’energia e della comunicazione digitale, il passo è breve.
Questa settimana si parlerà tanto di Europa. Perché non sia inutile, bisogna bandire la retorica e andare al sodo. Con questi o altri progetti, ma al sodo. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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