C'era una volta il ceto medio
Il Paese cambia, ma chi lo “legge” usa occhiali vecchi e chi lo dirige applica modelli superati
di Enrico Cisnetto - 11 dicembre 2016
La narrazione renziana ha fallito, stando al referendum. Ma anche i media, la sociologia e la statistica faticano a interpretare la realtà, perché crisi economica e nuove tecnologie hanno modificato la struttura e il tessuto sociale. Non a caso il Censis nel suo 50° rapporto ha optato per un’analisi più qualitativa che quantitativa. Certo, i dati sono evidenti. Gli under 35 in un quarto di secolo hanno perso il 25% del reddito, crescono le professioni non qualificate (+9,6% tra 2011 e 2015), diminuiscono le figure intermedie (-5,1%), due italiani su tre non prevedono un miglioramento nel futuro e il 57% è convinto che i figli non staranno meglio dei genitori. Lo stesso scenario certificato dall’Istat, secondo cui il 7,6% degli italiani è in condizioni di povertà assoluta e il 28,7% ne è a rischio (17,5 milioni di persone), con picchi del 46,4% al Sud. E se i redditi negli ultimi due anni non calano in termini reali (dopo aver perso il 12% dal 2009) è solo perché l’inflazione è prossima allo zero, Ma, comunque, si sta allargando il divario sociale, tanto che dal 2009 al 2014 è aumentata la forbice (da 4,6 a 4,9) tra il 20% più ricco (che detiene il 37,3% della ricchezza) e il 20% più povero (7,7% della ricchezza).
Insomma, è in corso un’erosione del ceto medio. Ma se per l’Organizzazione Mondiale del Lavoro la classe media è scesa dal 30% al 27% in Germania, dal 29% al 27% in Spagna e dal 28% al 26% nel Regno Unito, in Italia la situazione è più grave. Infatti, sia la diseguaglianza dei redditi (indice Gini) sia l’indicatore del rischio di esclusione sociale da noi sono sopra il livello degli altri paesi europei. E il problema non riguarda solo gli “individui”, ma anche le imprese, dove il 20% più attivo produce l’80% del valore aggiunto e dell’export, mentre la grande maggioranza stenta e una cospicua minoranza sopravvive in stato terminale.
Ora, se questi sono i dati, può aiutare l’interpretazione fornita da Giuseppe De Rita, secondo cui nella divaricazione tra potere politico e popolazione, viviamo in una “società dissociativa” dove ognuno va per conto proprio. L’individualismo crescente degli anni ’80, corroborato dalle nuove tecnologie, ha obbligato il Paese a sopravvivere, a dare “continuità” all’economia anche e nonostante tanti anni di recessione e di “zero virgola”. Allora, lontano dai media e dalle analisi, molti italiani hanno imparato a vivere una “seconda era del sommerso”, dopo quello del “lavoro” e “dell’impresa” degli anni Settanta, alla ricerca di nuove fonti di reddito, alternative, individuali, nascoste. Oltre alla crescita del risparmio cash (dal 2007 ci sono 114 miliardi di contante in più), aumenta la soggettività individuale anche in ambito lavorativo, per cui sulla già consolidata “sharing economy” si sta costruendo la “gig economy”, l’economia del “lavoretti” singoli, estemporanei, legati alla tecnologia ma slegati da qualunque forma di inquadramento o subordinazione.
Insomma, il Paese cambia velocemente, ma chi lo “legge” usa occhiali vecchi e chi lo dirige applica modelli superati. Non è un caso che, per esempio, manchi una normativa chiara sul lavoro autonomo e non ce ne sia una sull’economia del web (vedi Uber, Airbnb e via dicendo). Figuriamoci sulla “gig economy”. Il Paese legale è in campagna elettorale permanente, mentre quello reale (il “resto” come lo chiama) fa da sé, sommergendosi. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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