Addio laureati!
Continua il calo dei laureati e l'Italia rischia di perdere la battaglia sull'innovazione
di Enrico Cisnetto - 18 settembre 2016
Addio laurea. E addio laureati. Con l’inizio del nuovo anno scolastico c’è da sottolineare che per la prima volta dal 1945 in Italia smette di crescere il numero dei “dottori”, mentre continua ad aumentare quello di chi fugge all’estero. Purtroppo, di “generazione perduta” si parla solo a corrente alternata, ma il virus è antico, costante e depressivo, tanto da aver creato un vortice negativo per cui, non trovando lavoro o trovandolo sottopagato, i ragazzi si allontanano sempre di più dai libri. E il Paese, di conseguenza, perde competenze, capacità e risorse. Mentre l’economia è di nuovo ferma, le opportunità diminuiscono.
D’altra parte, come dare torto a chi sceglie di non studiare. Il salario medio di ingresso nel mondo del lavoro di un laureato triennale è calato dai 1300 euro del 2007 ai 1000 del 2012. E se la laurea ancora aiuta a trovare un lavoro, all’estero viene pagata il doppio che da noi. Non è un caso che 4 studenti su 10 provino a fare le valigie e che in 10 anni abbiamo perso circa 700 mila laureati, la cui formazione – tra l’altro – ci è costata circa 8,5 miliardi. Come non è un caso che la disoccupazione giovanile sia superiore al 40% e che su 100 giovani tra i 25-34 anni, i laureati italiani siano il 22%, contro una media Ocse del 39%. Dunque, con quale convenienza studiare per anni, se poi la retribuzione e la carriera, ammesso che esistano, diventano più povere e più difficili?
E così un crudo pragmatismo ha infettato i ragazzi, che si iscrivono sempre di meno alle università, con un calo di 50 mila unità in pochi anni, e abbandonano gli studi più che altrove in Europa (il 45% secondo Bruxelles). Così, l’Italia ha una delle più basse quote continentali di laureati tra i 30 e i 34 anni. Per fare un esempio, il numero dei “dottori” in Francia e Germania cresce ad un ritmo doppio, mentre la Polonia, con i sui 5,6 milioni, ha un numero di laureati che sta per superare il nostro. Come anche la Cina in quota percentuale, già molto vicina al nostro 13%. Non cambia il discorso per l’istruzione di alto livello. I 10 mila nuovi dottori di ricerca proclamati ogni anno sono inferiori alla media Ocse, come anche il loro impiego presso aziende che fanno ricerca e sviluppo. D’altra parte, pur trovando nella maggioranza dei casi un lavoro, circa la metà dei Ph.D non sfrutta tutte le competenze acquisite e 1 su 3 sostiene che il titolo di studio conseguito gli è sostanzialmente inutile.
La verità ce la sbatte in faccia il premier ungherese quando, a nome dei 4 di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), dice che “da voi un giovane, quando gli dite di studiare per migliorare il suo futuro si mette a ridere. Da noi no, perché sappiamo cosa fare”. Insomma, faticoso ma non del tutto fruttuoso, lo studio non è più di moda. E quei pochi che ce la fanno scappano all’estero.
C’è da essere preoccupati, e non solo per amore della cultura. Il problema è che paesi emergenti prima hanno sfidato la nostra industria giocando sul basso costo del lavoro, e ora si accingono alla battaglia finale facendo leva su conoscenze, innovazione e ricerca. Una contesa in cui l’arma determinante, e paradossalmente per niente segreta, è il livello medio di istruzione. Hai voglia a parlare di innovazione e valore aggiunto come chiave per ripartire. Chi la fa, se i migliori varcano la frontiera? (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.