Nel nome del terrore
In questa guerra combattuta anche sul web la vera sconfitta rischia di essere la verità
di Marco Dipaola - 03 agosto 2016
Sono giorni bui, in cui il buio della guerra scatenata dal terrorismo jihadista rischia di offuscare anche la chiarezza della verità.
Il termine guerra è stato sdoganato con colpevole ritardo, ma ora è forte nei titoli delle prime pagine, nelle considerazioni argute degli esperti, nelle dichiarazioni dei politici e persino di Papa Francesco.
Siamo in guerra, allora, ma ci viene detto di non cambiare di una virgola le nostre abitudini, di non lasciarci sopraffare dalla paura, come se non ci fosse bisogno di cedere un pezzo delle libertà individuali a favore una maggiore sicurezza collettiva. Eppure la lente di ingrandimento su ognuno di noi è già ferma da un pezzo. Una lente virtuale, ovviamente, che opera per dare un senso (se non proprio un’identità) alle innumerevoli tracce che lasciamo quotidianamente sul web, attraverso i social network e non solo.
Proprio il web per la prima volta è diventato il principale terreno di battaglia. Un “luogo” dove far circolare l’esaltazione della violenza, convertire gli islamici in combattenti dell’Isis, esultare per l’abbattimento degli infedeli. È internet l’unico luogo (virtuale) che congiunge i tanti luoghi (fisici) delle stragi di questi mesi. Trovare una strategia logico-militare tra la redazione di Charlie Hebdo, il palco del Bataclan, il lungomare di Nizza e la Chiesa di Rouen è pressoché impossibile, ma è facile capire che il vero collante sta nella rivendicazione successiva agli attentati, che puntualmente arriva dal web.
Allora se internet è il principale terreno di battaglia è lì che bisogna combattere. Ma come? Attraverso quali strumenti? In questi giorni si fa un gran chiacchierare, per esempio, dell’opportunità o meno di pubblicare foto e video dei terroristi responsabili delle stragi. C’è chi, addirittura, sostiene che i più importanti organi di informazione – cioè i siti maggiormente cliccati – dovrebbero rendere anonimi i terroristi, cancellando nomi e cognomi, per evitare la creazione di idoli da emulare.
Problema ricorrente, quello del modello cattivo da (non) imitare. Ce lo portiamo appresso ormai da decenni, da quando i media sono entrati prepotentemente nella nostra quotidianità, senza più uscirne. La tv, il cinema, i social ci propongono sempre nuovi protagonisti, che spesso diventano modelli, spesso sbagliati, per milioni di giovani e non solo. Ma anche un serial killer può creare emulazione, anche con i personaggi di Gomorra si potrebbe correre lo stesso rischio, per non parlare dei boss di Cosa Nostra. Di loro sappiamo tutto, non semplicemente nomi e cognomi. Non si capisce, allora, il motivo per cui non si debba conoscere le generalità dell’uomo che ha sgozzato Padre Jacques Hamel.
Sarebbe bene scindere, quindi, la propaganda dei video diramati dall’Isis e l’orrore di alcune raccapriccianti scene di violenza, di cui si può fare anche a meno, con il racconto dei fatti, compresi nomi e cognomi dei protagonisti. Oscurarli provocherebbe un’autocensura controproducente, perché sul web uscirebbe tutto comunque, e in quel caso il danno sarebbe aggravato dall’enfasi dello scoop.
Se siamo in guerra qualcuno la dovrà pur combattere, anche sul web, ma senza sconfiggere la verità.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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