Energia, la sfida di Doha
La partita sull'energia si gioca in Qatar, e avrà ricadute sulla nostra economia
di Enrico Cisnetto - 17 aprile 2016
L’inutile voto referendario di oggi ha catalizzato tutte le attenzioni, come se potesse cambiare qualcosa nel destino degli idrocarburi, mentre in queste stesse ore è a Doha, in Qatar, che i maggiori produttori di petrolio del pianeta si sono riuniti per (ri)trovare l’equilibrio perduto. Ed è lì che dovremmo guardare, perché il referendum non riguarda vecchie o nuove trivelle, ma solo se sia possibile sfruttare i giacimenti esistenti entro le 12 miglia fino all’esaurimento. Se vincessero i referendari si fermerebbero 9 concessioni già scadute e 17 in scadenza nel 2017, con un taglio del 10% della produzione nazionale. Una quota che dovremo poi comprare dall’estero, aggravando la nostra già critica dipendenza energetica. Un’ipotesi ancor più preoccupante se inquadrata nello scenario di guerra (economica e non) che si è scatenata sul petrolio, con il prezzo sceso del 65% in due anni.
Il vertice di Doha, che tra paesi Opec e non Opec raduna i tre quarti della produzione mondiale, ha proprio lo scopo di riequilibrare offerta e domanda, riportando verso i 50 dollari il prezzo del barile, crollato da 140 a 33. L’Arabia Saudita, che estrae al costo di 3 dollari al barile e detiene il 17% delle riserve mondiali, nonostante la domanda globale sia in calo, ha mantenuto alta la produzione (e i prezzi bassi) per non perdere quote di mercato, per non avvantaggiare l’Iran e per mandare in crisi lo “shale” americano. Che infatti ha quasi capitolato, con 60 compagnie fallite che hanno lasciato debiti per 20 miliardi di dollari. Inoltre sono andati in fumo, secondo il Financial Times, 150 miliardi di dollari in bond e duemila miliardi in azioni con le 20 maggiori banche Usa esposte verso le società petrolifere per 115 miliardi di dollari, mentre le omologhe europee arrivano a 200. Senza contare quanto la guerra “ribassista” abbia messo in difficoltà paesi come la Russia, che esportano idrocarburi, ma importano le nostre merci.
Insomma, se a Doha si dovesse stabilire un taglio della produzione, i vantaggi sarebbero maggiori degli svantaggi. Perché la vertiginosa discesa del prezzo del greggio ha consentito agli italiani di risparmiare solo 67 euro annui a famiglia (stima Autorità dell’Energia), senza alcun riflesso positivo sui consumi, ma contemporaneamente ha reso instabili molti mercati del nostro export, volatili i mercati, messo in crisi tutte le aziende che operano nei settori dell’energia. Inoltre, il calo dei prezzi delle materie prime contribuisce anche alla pericolosa deflazione (l’Istat dice che a marzo quella acquisita per il 2016 è -0,4), con conseguente blocco di investimenti, stipendi, introiti fiscali e, soprattutto, con il debito pubblico che non “deprezza” il suo valore assoluto, arrivato ormai a 2215 miliardi. Invece, con un po’ di inflazione, che un aumento del prezzo del petrolio procurerebbe, il valore del debito, come anche quello del deficit, si ridurrebbe di fronte ad un pil nominale più alto.
Così, mentre a Doha si cerca un accordo per placare le tensioni tra i grandi player, l’Arabia Saudita prova un riavvicinamento con Teheran, gli Usa vogliono evitare il fallimento dello shale gas, la Russia tenta di uscire dall’isolamento, noi stiamo qui a guardare l’ombelico di questo inutile referendum, senza accorgerci che la questione petrolifera si risolve solo a livello globale. Altro che blocco delle trivelle. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.