Trivelle, i nodi del referendum
Trivelle, ennesimo referendum: attenzione a bloccare lo sviluppo
di Enrico Cisnetto - 20 marzo 2016
Meno di un mese al referendum. Ma su cosa? Perché il quesito non è “trivelle si-no”, visto che già ci sono, ma se sia giusto o meno sfruttare i giacimenti esistenti entro le 12 miglia dalle coste fino al loro esaurimento. Ecco, se con la vittoria del “si” fosse ripristinato il vincolo temporale delle concessioni, i vantaggi ambientali sarebbero aleatori, ma i danni economici certi, con lo smantellamento – l’ennesimo – di un settore industriale vivo. Saremmo, in pratica, l’unico Paese che rinuncia a sfruttare le proprie risorse naturali. Infatti, se non sarà possibile proseguire le attività con le piattaforme esistenti, le compagnie potranno sempre costruirne di nuove poco oltre il limite dei 22 chilometri, con davvero poca differenza per l’ambiente. Perché il fabbisogno energetico deve comunque essere soddisfatto, ma sarebbe anche peggio dover aumentare la nostra già problematica dipendenza energetica dall’estero. E se oggi, con il prezzo del petrolio ai minimi, le importazioni pesano sul pil per il 3%, domani, con il greggio tornato livelli fisiologici, si potrebbe arrivare al 6%, con nuovi rincari di benzina e bollette.
Inoltre, ci perderebbe lo Stato, poiché finirebbe all’estero una parte consistente degli 800 milioni di tasse e 400 di royalties, anche se Nomisma Energia quantifica il danno complessivo 5 e 10 miliardi. Senza contare eventuali cause legali su ciascuno dei progetti bloccati, visto che saremmo al quarto cambio di rotta normativo in 5 anni. Sarebbero poi a rischio i 10 mila lavoratori impiegati direttamente e i 115 mila dell’indotto. Se anche gli impianti oggetto del referendum riguardano circa un terzo delle estrazioni di gas e un decimo di quelle petrolifere, la perdita sul fatturato complessivo del comparto, che ammonta a 4,5 miliardi, sarebbe disastrosa.
Anche sui temi ambientali occorre fare chiarezza. Il referendum riguarda solo 9 impianti a petrolio, mentre gli altri 39 sono a metano, il meno nocivo tra gli idrocarburi. Poi, visto che viviamo tutti su questa terra e che di gas abbiamo sempre bisogno, meglio estrarre a casa nostra, con maggiori controlli ambientali (Ispra, Ingv, Capitanerie, Iss, Usl, Asl e vari Ministeri) che in territori più poveri dove le normative sono meno stringenti. Troppo facile fare gli ambientalisti con l’ambiente degli altri.
Insomma, in gioco non c’è la lotta all’inquinamento, ma una misera strumentalizzazione politica, che rischia di costarci tantissimo. Nove regioni hanno chiesto il referendum proprio per tutelare il loro consenso, vellicando la sindrome Nimby, e per riacquistare peso contrattuale nell’attuale ridefinizione degli equilibri tra Stato ed enti locali, in cui c’è la sacrosanta possibilità di restituire a livello centrale l’ultima parola in materia energetica. Per tentare una mediazione, nell’ultima legge di Stabilità il governo ha ripristinato il divieto di nuove estrazioni entro le 12 miglia, smentendo quanto deciso nello Sblocca Italia. E adesso il Pd ha anche espresso un indefinito invito all’astensione, quanto mai contradditorio per un partito di governo. Perché un conto è dire “per far prevalere il no è meglio far mancare il quorum”, e un altro è nascondersi per coprire le proprie contraddizioni interne.
Come è già successo per nucleare e acqua, siamo di fronte all’ennesimo referendum che non tutela alcun “bene pubblico”, ma produce solo danni e blocca lo sviluppo. Buon (non) voto. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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