L'ipocrisia non va in pensione
L'Italia immatura critica faziosamente la riforma che ci ha salvato
di Paolo Arsena - 18 maggio 2015
La bocciatura da parte della Consulta di un importante provvedimento della riforma delle pensioni firmata da Elsa Fornero apre uno spaccato assai eloquente su un Paese refrattario a cambiare approcci e mentalità.
Sulla scia della sentenza, ha ripreso fiato la polemica a tutto campo su una riforma, quella previdenziale, che invece è stata salvifica e liberatoria, perché capace di intaccare privilegi e diritti sì acquisiti, ma divenuti assolutamente anacronistici e iniqui.
Il ministro Fornero e, più in generale, tutto il governo Monti, invece di essere ringraziato per aver salvato un Paese sull’orlo della bancarotta grazie ad alcune riforme inderogabili e necessarie, viene facilmente additato come “il peggior governo di tutti i tempi”, con punte di odio e di violenza verbale di rara intensità.
A questo gioco al massacro si prestano tutti, indistintamente, sia pure con accenti diversi. Il cittadino, cui sono stati chiesti sacrifici; i futuri pensionati, abbarbicati in difesa delle proprie prerogative obsolete; i sindacati, che non perdono occasione per innalzare totem e steccati; partiti populisti come i 5 Stelle e la Lega, che sulla pelle della ministra vanno a caccia del consenso facile; il governo attuale, che deve rimettere mano ai conti e si premura di scaricare le colpe sulla presunta “incompetenza” dei predecessori; partiti come il PD, che quelle riforme le hanno votate diligentemente; partiti come Forza Italia che quelle riforme non solo le hanno votate senza batter ciglio, ma le hanno sommessamente salutate con il sollievo di chi vede finalmente arrivare un insperato rimedio ai propri disastri.
Perché allora tanta schizofrenia?
Perché, al netto delle urla e delle vesti stracciate, tutti sanno che la riforma delle pensioni del governo Monti era ed è il pilastro che tiene in piedi i conti della nostra economia. Tutti sanno che, con un debito pubblico alle stelle e alle soglie del 2014, era ormai insostenibile pagare pensioni ai 58enni, quando in Europa si smette di lavorare a 65-68 anni (e quando i giovani d’oggi sulle proprie, di pensioni, non hanno alcuna garanzia). Tutti sanno che vigeva ancora una disparità tanto odiosa quanto inaccettabile, tra chi la pensione se la vedeva pagare in larga parte dallo Stato (metodo retributivo, comprensivo del trucchetto beffardo dell’aumento di stipendio nell’ultimo anno di lavoro) e chi se la doveva mettere via interamente di tasca propria (metodo contributivo).
Tutti sanno insomma che la legge Fornero ha imposto una rivoluzione: ha definitivamente abolito il sistema retributivo, ha decisamente spostato in avanti l’età pensionabile, ha consentito allo Stato un risparmio strutturale gigantesco. Con morti e feriti, naturalmente. Cagionati anche dalla fretta che quel momento storico imponeva: con lo spread alle stelle, il baratro davanti ai piedi e l’Europa alle calcagna.
Ma se tutto questo è noto, tutti sanno però che è più semplice e redditizio lisciare il pelo alla pubblica opinione, piuttosto che spiegare, educare, far comprendere.
Se questo Paese fosse più maturo, più cosciente dei propri vizi e delle proprie virtù, se fosse soprattutto più “Paese”, cioè più votato all’interesse generale che al tornaconto particolare, allora vedremmo assegnare diversamente i torti e le ragioni. Scopriremmo ad esempio che vent’anni di balbettii, di timidi tentativi e di retromarce in campo previdenziale hanno costretto ad un cambiamento repentino, drastico e doloroso. E sul banco degli imputati finirebbe la causa della malattia (cioè i governi Prodi e Berlusconi) e non il medico (il governo Monti).
E se fosse matura, questa Italia, capirebbe che la nostra Costituzione dev’essere ampiamente rivista, senza tabù. Una Costituzione che è stata “la più bella del mondo” (senza retorica) per un dato periodo storico, che oggi però abbiamo alle spalle. Quel lungo periodo in cui, superato il fascismo, dovevamo mettere al centro la democrazia, coi suoi pesi e contrappesi, le sue garanzie, l’equilibrio della sua perfetta architettura.
Oggi la democrazia si difende meglio se la si fa funzionare in modo più rapido ed efficiente. Che non significa rinunciare al pluralismo, al controllo, al dibattito. Ma significa aprire una riflessione sulle sue regole per renderle più al passo con un mondo veloce e mescolato, e cioè avere la possibilità di mettere mano alla Carta fondamentale del nostro Paese.
Significa evitare, ad esempio, che una Corte Costituzionale monca, col solo voto decisivo del suo Presidente, intervenga su una libera decisione del governo e del Parlamento e stabilisca l’intangibilità di un diritto acquisito sulle pensioni (uno soltanto, peraltro), mandando in malora anni di sacrifici e di progetti.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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