Il lavoro che non c'è
E' ancora presto per valutare i Jobs Act, ma intanto crescono gli inattivi
di Enrico Cisnetto - 05 aprile 2015
Se il lavoro non si crea per decreto, figuriamoci a parole, specie poi se sono furbesche o faziose forzature della realtà.
Ha cominciato per primo il governo, annunciando trionfalisticamente 79 mila contratti a tempo indeterminato in più registrati tra gennaio e febbraio (rispetto ad inizio 2014), e attribuendone il merito al Jobs Act tanto da pronosticare “un milione di posti di lavoro in più” (Poletti dixit). Peccato che quando sono state pubblicate le cessazioni il saldo positivo si sia ridotto a 45 mila, e che la riforma non c’entri un fico secco, visto che è entrata in vigore solo il 7 marzo. Quei dati, invece, riflettono un travaso di rapporti precari in forme più stabili grazie ad incentivi economici, e non certo normativi. Ma che bisognasse evitare la fanfara lo hanno detto, pochi giorno dopo, i dati Istat di febbraio: 44 mila occupati in meno e 23 mila disoccupati in più, con l’ulteriore dimezzamento del precedente dato sui nuovi occupati a dicembre (da 93 a 46 mila). Impietoso, poi, il confronto con l’Europa: sempre a febbraio la disoccupazione nell’eurozona è scesa dello 0,1% in un mese e dello 0,5% in un anno, attestandosi all’11,3%, mentre in Italia è salita rispettivamente dello 0,1% e del 2,1%, arrivando al 12,7%. Segno che non abbiamo nulla da festeggiare. Ma anche in questo caso il Jobs Act non c’entra nulla. Hanno voglia Landini e compagni di urlare contro la riforma liberticida, che sopprime i posti di lavoro anziché crearli. E perché non considerare l’ipotesi che l’aumento degli iscritti alle liste di collocamento possa essere conseguenza di un’aumentata aspettativa di ripresa dell’economia, per cui chi fino a ieri era sfiduciato e non si metteva sul mercato, ora invece lo fa?
Insomma, sciocchezze. Perché non solo il nuovo mercato del lavoro voluto da Renzi – una riforma positiva ma decisamente perfettibile, i cui effetti si potranno valutare soltanto nel lungo termine – ma qualunque legge, da sola, né elimina né crea posti di lavoro. Può agevolare o meno il sistema produttivo, ma senza una vera ripresa non c’è legge sul lavoro che tenga. Così come è la recessione, non lo sghiribizzo degli imprenditori, a produrre disoccupati. Il Jobs Act , poi, nelle sue prime applicazioni pratiche ha fatto emergere incertezze ed eccezioni (per esempio: il rinnovo del contratto dei bancari, in caso di fusioni e ristrutturazioni, conserva l’articolo 18). Cosa che ancor più non aiuta a fare valutazioni.
Peraltro queste opposte deformazioni della realtà non aiutano a mettere a fuoco quello che è il nostro vero problema sul fronte del lavoro: il numero degli occupati. A febbraio gli inattivi, cioè quanti un lavoro non ce l’hanno e non lo cercano, sono arrivati al 36% (+0,1% rispetto a gennaio), mentre la percentuale di popolazione attiva impegnata nella produzione del pil è solo del 55,7%, in calo di due decimi di punto. Resa così bassa e drammaticamente distante dalla media Ue non tanto dalla quota maschile (64,7%) quanto da quella femminile, che è al 46,8%.
Quindi, per valutare se il nostro ecosistema normativo – Jobs Act ma non solo – funziona o meno, dobbiamo misurare quanto richiami gli inattivi e i disoccupati al lavoro, specie se donne e giovani. E se la risposta fosse negativa – visti i numeri, sfido chiunque a dire il contrario – si metta mano a defiscalizzazioni e deregolamentazioni. Altro non serve. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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