Rivoluzioni popolari
La trasformazione in Spa obbliga le banche a riorganizzarsi
di Enrico Cisnetto - 08 marzo 2015
Mancano poche ore, e l’iter di conversione del decreto legge che obbliga le banche popolari con attivi maggiori a 8 miliardi a trasformarsi in Spa sarà concluso, magari mettendo la fiducia. Ma sapremo se si rivelerà una buona cosa solo dopo che il nostro sistema bancario avrà compiuto quello che appare ormai come un passaggio ineludibile: una nuova stagione di aggregazioni, dopo quella degli anni Novanta. Determinata non solo da questa novità legislativa, ma anche dalle conseguenze degli stress test cui gli istituti di credito sono stati sottoposti e i relativi piani di rafforzamento del capitale di chi, come Carige e Mps, ne era stato trovato carente all’esame chiamato comprehensive assessment. Il combinato disposto di queste due cose crea ora la necessità di riorganizzare un mondo, quello del credito, ancora troppo frammentato e rimasto troppo fermo rispetto ad un’economia che in parte si è già attrezzata ad affrontare la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica in atto e di conseguenza richiede una finanza più moderna, e in parte ha bisogno di “nuovo credito” (non solo liquidità, ma nuova qualità) per riuscire a farlo.
Dunque, è inutile recriminare su quel che è stato. Certo, sarebbe stato meglio se governo e Bankitalia avessero fatto maggiore argine agli interessi non italiani che hanno determinato le regole eccessive e, soprattutto, la loro applicazione in modo cervellotico, con cui gli stress test si sono fatti (a nostro danno). Ma ormai è cosa fatta. Certo, a proposito degli istituti di credito cooperativo si può recriminare perché i banchieri per anni hanno eluso quella che sarebbe tranquillamente potuto essere un’autoriforma, così come si può accusare con ragione il governo di aver agito senza sentire nessuno e di aver usato lo strumento del decreto legge presupponendo requisiti di “necessità e urgenza” che con tutta evidenza non sussistono. Ma ormai è cosa fatta. Ora sarebbe opportuno che Renzi si convincesse che si possono introdurre modifiche al decreto senza per questo mettere in discussione l’impianto della riforma, e che tra quelle richieste dai banchieri più intelligenti e non barricaderi, oltre al tetto del 5% su cui c’è già l’okay, ce ne potrebbero essere alcune del tutto ragionevoli – come il diritto di voto sterilizzato in assemblea oltre una certa soglia (per esempio 10 mila azioni), o allungare da 18 a 24 mesi l’arco temporale previsto per la trasformazione in Spa, in modo da evitare che la mutazione avvenga a cavallo tra due esercizi – al fine di evitare speculazioni e tutelare gli azionisti “granulari”. Ma se così non sarà, amen.
Adesso, quello che conta davvero è agire sul mercato ma con una logica di sistema nel riorganizzare la mappa del mondo bancario, avendo cura di evitare la calata dei lanzichenecchi – e in particolare quelli che nei mesi scorsi erano già pronti ad azzannare le banche italiane vittime della rigidità (inutile) dei regolatori europei – senza per questo rinunciare ai capitali internazionali che guardano con crescente interesse all’Italia. Non auspico un dirigismo asfissiante e vincolante, ma neppure il disinteresse delle istituzioni. Bankitalia può, e deve, aiutare il formarsi delle volontà intorno alle aggregazioni, non con l’intento di imporre soluzioni ma con la ferma volontà di evitare pasticci e guai. Si cominci, non c’è tempo da perdere, al Paese serve, e subito, un sistema bancario più forte. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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