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L'offerta di Mediaset su Rai Way

Il gioco delle torri

Nella partita Mediaset-Rai sui ripetitori c'è in ballo una posta molto più alta

di Enrico Cisnetto - 01 marzo 2015

L’opas lanciata da Ei Towers su Ray Way ha subito prodotto una vasta letteratura moralisteggiante sul “contorto intreccio di politica, business e televisione” e scatenato i soliti venditori di supposizioni dietrologiche, spesso opposte visto che c’è chi giura che l’operazione sia figlia naturale del mai morto patto del Nazareno e chi crede che rappresenti il fischio d’inizio di una guerra di potere senza precedenti. Giù le armi, please. Risparmiateci tanto l’elegia del mercato, che con il duopolio Rai-Mediaset ha sempre avuto poco a che fare, quanto l’ennesimo spurgo di bile anti-berlusconiana.

Il destino dei ripetitori della Rai trascende gli interessi contingenti, in ballo c’è lo sviluppo futuro delle nostre infrastrutture di comunicazione per i prossimi decenni. Non importa granché sapere come sia nata l’operazione, chi ne fosse al corrente, e cosa ci sia dietro. E non mette conto neppure di affrontare la tematica circa l’esistenza o meno del vincolo del 51% e della sua legittimità. In tutti i casi, la Rai deve farsi dire dal suo azionista (il governo, e quindi Renzi) se aderire o meno all’offerta. Difficile sostenere che l’opas sia incongrua, visto che l’offerta di 1,22 miliardi (851,3 milioni in contanti e il resto in azioni) si basa su una valutazione di oltre il 50% più alta rispetto al valore di collocamento di Rai Way in Borsa di 100 giorni fa. Dirà di sì per consentire che la Rai sistemi i debiti e si rimetta all’onor del mondo, evitando di farsi accusare di danno erariale in caso di rifiuto, magari trascinata in giudizio dal fondo Blackrock che in quel caso non potrebbe vendere il suo 5%? O dirà di no, per calcolo politico? Forse sarebbe meglio che il governo rispondesse ad un’altra domanda: è sensato che quella infrastruttura sia messa nelle mani di un operatore tv, chiunque esso sia? Insomma, l’operazione Ei Towers-Rai Way ha da farsi, ma non per metterla nelle mani di Mediaset, e tantomeno della Rai (che tra l’altro non avrebbe i soldi per fare una contro-opa).

No, quello che bisogna fare è lo scorporo delle reti dai contenuti televisivi, per mettere le prime (non solo quelle del duopolio, ma anche le altre minori) in una nuova società, una public company quotata dove lo Stato potrebbe avere una quota intorno al 20-25% attraverso Cdp e detenere la golden share. Sulla falsariga di quello che Terna è stata nel campo dell’energia elettrica. Una società che, poi, aiuti a mettere ordine, secondo una logica di sistema-paese, le telecomunicazioni, realizzando la convergenza tecnologica di tv-telefonia-internet, prima sul terreno delle infrastrutture e poi su quello dei contenuti, contribuendo con la banda larga a recuperare l’ormai intollerabile digital divide di cui l’Italia soffre. In quel caso il contenitore c’è già e si chiama Metroweb, la società – sotto il controllo di Cdp, direttamente attraverso il Fondo Strategico e indirettamente via F2i – che sta cablando in fibra ottica molte città italiane. Per far questa che sarebbe finalmente una grande iniziativa di politica industriale, occorre avere lungimiranza strategica e misura. Niente pistole sul tavolo. Come sarebbe quella puntata alla testa di Telecom se la si obbligasse a disfarsi della rete in rame (in bilancio a 15 miliardi, vera garanzia del debito esistente). E come sarebbe quella puntata alla testa di Metroweb se le si impedisse, nei fatti, di cogliere questa straordinaria occasione. (twitter @ecisnetto)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.