Le ragioni dell'Europa
Loro "uniti", noi divisi su tutto. Così lo scambio salta
di Enrico Cisnetto - 21 dicembre 2014
Non bisogna essere dei pasdaran del liberismo per dichiararsi favorevoli all’accordo di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa. Ma non è nemmeno difficile capire che in questo negoziato, gli americani sono avvantaggiati: parlano con una voce sola, puntando a dividere e fagocitare i 28 diversi canti e controcanti che convivono in Europa. Dunque, è bene che i negoziatori continentali, e il governo italiano in particolare, siano consapevoli che è sulla divisione degli interessi europei che sia gioca la partita, e ci mettano preventivamente rimedio. E da questo punto di vista, il fatto che il Consiglio europeo abbia ufficialmente posticipato al 2015 il nuovo round dei negoziati per il Trans Atlantic Trade e Investment Partnership – segno che sono troppi i dettagli determinanti ancora da definire e troppe le posizioni divergenti per creare un mercato comune che coinvolgerebbe 1 miliardo di persone e la metà del pil mondiale, rafforzando l’asse Atlantico rispetto alle economie orientali – non può che essere considerata una buona notizia.
Tra il Vecchio Continente e il “Nuovo Mondo” sono da anni in corso trattative per liberalizzare reciprocamente l’accesso ai mercati, per la riduzione delle tariffe doganali, l’abolizione delle barriere tecniche e la rimozione degli ostacoli burocratici, vincoli che in alcuni settori implicano pesanti costi aggiuntivi (per i generi alimentari il 41%). Non poco, visto che ogni giorno tra Usa e Ue transitano merci per 2 miliardi di euro. Il Ttip, uniformando regole e standard tecnici, potrebbe generare quasi mezzo punto di pil annuo in più per l’eurozona (120 miliardi), grazie ad un export verso gli Usa che potrebbe crescere fino al 28% (+6% sul totale). In un mondo sempre più interconnesso, solo un tabù ideologico può opporsi ad un simile accordo, che certo non può “smantellare” il welfare europeo, come sostengono i detrattori che venerdì sono scesi in piazza a Bruxelles. Inoltre, la sottoscrizione del Ttip sarebbe un grande vantaggio per il nostro export, unica voce anticiclica della economia italica, arrivata a coprire il 30% del pil. Questo perché le pmi incontrano nelle barriere, doganali e burocratiche, ostacoli e limiti che le imprese, mediamente più grandi, degli altri paesi aggirano con maggiore disinvoltura. Con la riduzione dei costi di esportazione del 30% (altro che svalutazione dell’euro…), il numero delle pmi italiane che esportano potrebbe passare dall’attuale 29% al 47% del totale, livello che ora raggiungono solo i tedeschi. Target difficile, ma non impossibile.
Il patto sembrerebbe pronto, ma l’Europa divisa su tutto – e sarebbe una novità se non lo fosse sul Ttip – rischia di farlo saltare. I tedeschi, per esempio, puntano a rivedere le misure degli airbag per vendere più facilmente le loro vetture in America (e a tagliare il dazio del 10% che gli Usa impongono sulle auto), mentre gli italiani vorrebbero la riduzione della miriade di norme (sanitarie, packaging, etichettatura) che condizionano fortemente l’export agroalimentare, che già vale 2,9 miliardi (il 28% dei flussi extra-europei). Già con le sanzioni verso la Russia le imprese italiane sono state le più danneggiate. Ma visto che con gli Usa non c’è un’Ucraina di mezzo, bisogna far valere le nostre ragioni. Errare è umano, perseverare è diabolico. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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