Pericolo deflazone
L'inflazione attuale ci costa 17 miliardi solo nel 2014. I prezzi troppo bassi sono un danno per l'economia
di Enrico Cisnetto - 20 luglio 2014
Per chi ha vissuto gli anni dell’inflazione a due cifre e non ha digerito il cambio lira-euro la cosa potrà risultare paradossale, ma tra i tanti guai della nostra economia ora c’è anche quello dei prezzi troppo bassi.
L’Istat, infatti, ha confermato anche nelle ultime stime il trend negativo dell’indice dei prezzi al consumo, sceso al livello più basso degli ultimi 5 anni, visto che a giugno il tasso di inflazione è calato allo 0,3% dallo 0,5% di maggio. Ancor peggio per l’Eurostat, per cui si passa dallo 0,4% allo 0,2%. Il costo dei beni alimentari, poi, declinando dello 0,6% rispetto ad un anno fa, ha fatto un tonfo come non accadeva dal 1997. E, poiché l’indice rimane positivo principalmente per i rialzi stagionali dei trasporti (+0,7%) e quelli costanti nel tempo di energia, materie prime e accise, l’inflazione allo 0,3% che l’Istat ritiene acquisita per il 2014 non può che considerarsi vera e propria deflazione, che deriva dalla debolezza della domanda di beni e servizi.
Ma se prezzi calanti o al massimo stabili sono un vantaggio per chi fa la spesa, sono sicuramente uno svantaggio per il sistema economico nel suo insieme. L’economia è mossa dalle aspettative, e in queste condizioni consumatori e imprese, avendo imparato che la tendenza dei prezzi è a scendere, inevitabilmente rinvieranno a data da destinarsi spese e investimenti, con la conseguente contrazione delle attività economiche, a scapito di profitti, redditi e occupazione. La controprova è che, grazie all’inflazione vicina allo zero, con due anni di calo consecutivo (-2,54% nel 2013 e -2,85% nel 2012) i consumi sono tornati ai livelli di 10 anni fa, mentre per Confindustria gli investimenti nel 2015 saranno inferiori del 25,6% rispetto al 2007.
Insomma, un’inflazione troppo bassa è sinonimo di una società poco dinamica, atrofizzata, mentre una condizione di prezzi crescenti offre opportunità al merito e alla mobilità sociale, di cui tanto avremmo bisogno. Ma non solo. Con il debito pubblico al nuovo record storico di 2166 miliardi (135% del pil), questo stallo dei prezzi ci costa altri 17 miliardi solo nel 2014. Negli ultimi quattro anni, infatti, per finanziare il debito l’Italia ha emesso titoli per oltre 1500 miliardi di euro a tassi di interesse che tenevano conto di una certa perdita di valore della moneta nel tempo. Ma se il denaro non perde di valore è evidente che mantenere il debito diventa molto più oneroso. Inoltre, l’inflazione è una componente della crescita nominale del pil, quella su cui si calcolano alcuni vincoli di bilancio europei: se scende, aumentano in percentuale sia deficit che debito, e noi diventiamo oggetto di sanzioni.
Insomma, un cocktail micidiale. Da cui è complicato riprendersi. Il Giappone sembra esserci riuscito, dopo ben 15 anni, grazie ad una coraggiosa politica monetaria ultraespansiva, denominata “Abenomics”, simile a quella con cui la Fed, per risollevare gli Stati Uniti dalla grande crisi, dal 2008 ad oggi ogni mese ha pompato decine di miliardi di dollari. Azioni che l’Europa non può replicare, visto che la Bce ha già usato quasi tutti gli strumenti che aveva a disposizione, ed è persino andata oltre. Con scarsi effetti, visto che l’inflazione resta lontana dall’obiettivo di essere “inferiore ma vicina al 2%”. Ci siamo beccati la “sindrome giapponese”. È grave. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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