La distanza tra parole e fatti
Molta propaganda e poca concretezza. Parole e fatti hanno divorziato. Ma mentre le parole scorrono a ruota libera i fatti vengono giù a rotta di collo
di Davide Giacalone - 16 luglio 2014
La sola crescita cui si assiste è quella della distanza fra le parole e i fatti. Ed è impetuosa. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha confermato, per l’ennesima volta, quel che qui avevamo visto e ripetuto: nessuno si faccia illusioni sulla “flessibiltà”, perché gli impegni di bilancio presi devono essere rispettati. Sono mesi, quindi, che si parla di cose che non esistono o che, per quel che esistono, sono già comprese nei trattati, senza potere essere invocate per scorporare o non contabilizzare alcuna spesa pubblica. Di più: l’Eurogruppo ha sollecitato il taglio del cuneo fiscale, specificando che il mancato gettito deve essere compensato con minori spese o maggiori entrate. Le chiacchiere non solo valgono zero, ma costano e fanno perdere tempo.
Sono fra quanti non si sono mai stancati di ricordare che a fianco delle criticità pubbliche, con il debito fuori controllo e crescente e la spesa corrente che stronca le gambe all’Italia che corre, ci sono anche fattori di forza: dalla lunga serie di avanzi primari, per i quali siamo primatisti mondiali, alle esportazioni. Resta vero, ma ogni giorno di meno. Gli avanzi primari li dobbiamo anche alla crescente pressione fiscale, il cui sangue è riversato nel secchio sfondato del costo del debito pubblico. Le esportazioni le dobbiamo alla pervicace vitalità di un tessuto produttivo che non si arrende e che, al contrario dello Stato, ha capito e s’è adeguato alle regole della globalizzazione. Questa preziosa realtà è a rischio. In tredici anni abbiamo perso 120 mila aziende, sono sopravvissuti i più bravi e competitivi, ma il loro fiato s’è fatto corto, hanno progressivamente ridotto i margini di profitto, hanno tirato la carretta con rabbia e coraggio, ora si trovano davanti a tre possibilità: a. approfittare dei contatti e delle capacità, cambiando nazionalità e regime fiscale; b. resistere rinunciando al profitto e mangiandosi il patrimonio, puntando su un futuro in cui il fisco non continui a dissanguarli; c. chiudere.
Abbandonato a sé stesso, con governi che hanno pasticciato anche nel ristrutturare costosi e progressivamente inutili istituti per il commercio estero, divenuto corpo da cui estrarre gettito, il nostro settore delle esportazioni è stato condotto fino al punto in cui l’acqua lambisce la respirazione. Ancora poco e annega. Quello che era un punto di forza, e un motivo d’orgoglio, si trova in una situazione critica. Il tempo impiegato per il depauperamento e l’impoverimento è assai più lungo di quello necessario all’annegamento di massa. Dopo di che sarà la tragedia. E il governo che fa? negozia l’impossibile flessibilità per quel debito, quel deficit e quella spesa che, invece, andrebbero prese a fucilate.
Fa di più, il governo: si sdoppia, pretende di recitare tutte le parti in commedia. Ho letto con indignazione quel che il viceministro allo sviluppo economico, Carlo Calenda, ha scritto al Sole 24 Ore. Egli sostiene che il peso delle esportazioni è oggi pari al 30% del pil e andrebbe portato al 50. Bravo, concordo. Dice che la ripresa non può venire dal sostegno interno dei consumi, ma dal successo esterno delle esportazioni, che portano ricchezza reale e veri posti di lavoro: “per cogliere queste opportunità dobbiamo concentrare le iniziative sulla competitività dell’offerta piuttosto che sullo stimolo della domanda interna”. Sottoscrivo. Aggiunge che si deve partire dalla riforma del lavoro “compreso il superamento dell’articolo 18” (statuto dei lavoratori). Che ci vuole “un taglio drastico dell’Irap, a partire dalle aziende esportatrici”. Scusi, dott. Calenda, ma lei di quale governo crede di fare parte? Non si è accorto che è stato fatto l’esatto contrario? I mitici 80 euro sono sostegno (fin qui fallito) alla domanda interna senza un capello di produttività in più. In compenso l’Irap resta e le altre tasse sugli esportatori aumentano. Di che sta parlando, Calenda?
Parole e fatti hanno divorziato. Ma mentre le parole scorrono a ruota libera i fatti vengono giù a rotta di collo. Sul debito pubblico Padoan dice una cosa e Delrio il contrario. Sulle politiche di sviluppo Calenda dice una cosa, ma il governo Renzi fa il contrario. Sulla flessibilità i giornali italiani parlando di cose che non esistono, mentre la sola preoccupazione del governo sembra essere quella di abbozzare i conti e andare a votare. Ci fosse ancora un Parlamento si potrebbe anche supporre l’opportunità di un dibattito sul tema, ma in quelle Aule sono occupati a discutere di sé medesimi. Chi parla in pubblico s’intrattiene su minchionerie rottamatorie. Tutto si regge sull’atto di fede che i “nuovi” qualche cosa faranno. La Francia, assai mal messa, ma ancora non priva di classe dirigente, ha intanto in atto una manovra di tagli alla spesa pubblica per 50 miliardi. Occhio, perché il tempo corre e il tassametro gira.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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