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Public Policy

Tra Delrio e Padoan

Cancella il debito

La sortita del sottosegretario renziano ha un profondo significato: il macigno del debito va aggredito. Ecco come..

di Enrico Cisnetto - 04 luglio 2014

Come quando due genitori suggeriscono ai figli strade opposte, così pochi altri atteggiamenti danneggiano la collettività come i contrasti tra coloro che dovrebbero tracciare insieme la politica di un Paese, specie se evocano scenari farlocchi e suggeriscono soluzioni che non ci sono. Purtroppo è quello che sta accadendo sul delicatissimo tema del debito pubblico e del suo possibile consolidamento, su cui – nell’ignavia generale – il governo rappresenta all’esterno le evidenti divergenze che ci sono al suo interno.

Distratti dalle performance europee di Renzi – a proposito, ma dov’è lo scontro con la Germania, visto Roma dice “non chiediamo sconti, non vogliamo scorciatoie, dobbiamo noi risolvere le questioni italiane” e Berlino sostiene che “sconti e scorciatoie sono solo quelle previste dai patti” e “il debito è nemico della crescita”? – non abbiamo fatto caso a ciò che, in un’intervista al Corriere, ha dichiarato Graziano Delrio: per la prima volta, che io ricordi, un esponente del Governo italiano prende in considerazione l’ipotesi di un default del debito, stile Argentina o Grecia, aggiungendo che “deciderà il Presidente del Consiglio”. Ora, Delrio non è uno qualsiasi, trattasi di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, l’uomo fidato che Renzi avrebbe voluto all’Economia come suo braccio armato se il Quirinale non gli avesse pressantemente suggerito Padoan. Quelle sue parole hanno un peso, devono avere il peso che meritano. Non si può far finta di niente. Così come va valutata la proposta dello stesso Delrio di mutualizzazione del debito attraverso futuribili “euro union bonds”, la quale, prima ancora di incassare i prevedibili dinieghi tedeschi, è stata stoppata proprio dal ministro Padoan.

Sia chiaro, Delrio è stato improvvido – su temi come questi si decide, non si annuncia né tantomeno si ipotizza – ma ha il merito di avere sdoganato una questione che altrimenti è rimasta sottotraccia dopo il cambio di “umore” che Renzi, dopo Monti e Letta, ha voluto imporre al Paese. Cambio utile per riacquistare un po’ della fiducia perduta, ma pericoloso se ha come prezzo l’occultamento dei problemi. E che il il debito pubblico sia “il problema italiano” – sia per la dimensione che ha raggiunto, sia perché drena tutte le risorse che dovremmo impiegare per gli investimenti, unico vero strumento che può assicurare la crescita – lo dimostra il fatto che, record negativo dopo record negativo, continua ininterrottamente a crescere, avendo più che sfondato i 2100 miliardi e la quota del 135% del pil, con 82 miliardi di interessi da pagare (circa il 5% del pil, un peso insostenibile), e soprattutto che il Fiscal Compact, operativo dal 2015, ci costringerà a svenarci per far fronte agli impegni stringenti che prevede.

Facciamo due conti. Se sarà confermato il pareggio di bilancio l’anno prossimo – e non vi è traccia reale del contrario – considerato che la crescita nel migliore dei casi sarà la metà di quella prevista dal governo (0,4% anziché 0,8%), è prevedibile la necessità di una manovra correttiva in autunno di almeno 25 miliardi. Cui si aggiungono altri 17 miliardi come effetto della deflazione sul debito. Poi scattano gli obblighi di riduzione dello stock di debito per portarci entro il 2019 intorno al 121% del pil. Per farcela senza interventi straordinari, dovremmo essere capaci di avere un avanzo primario del 4,6%, il triplo dell’attuale e il doppio di quello che avevamo negli anni delle vacche grasse. Oppure di toglierci il peso di oltre 200 miliardi in un colpo solo. Ecco perché l’uscita di Delrio, pur nella sua imprudenza, ha non poco significato. Certo, per evitare il bailout con relativo commissariamento della Troika, la strada giusta non è il brutale consolidamento, che tra l’altro avrebbe nella quota detenuta dall’estero un freno e che ricadrebbe in modo pesante sul sistema bancario (con conseguente ritorno in zona “credit crunch”). E neppure la “ricetta” del Fondo Monetario (riscadenzare, pur senza cambiare la remunerazione offerta), che pure sarebbe meno peggio. Né, purtroppo, è percorribile la strada, buona ma futuribile, degli eurobond.

No, l’unica ristrutturazione possibile è quella del conferimento del patrimonio mobiliare e immobiliare pubblico – stimato dal Tesoro 600-800 miliardi per la parte più facilmente valorizzabile – ad una società ad hoc da quotare in Borsa, con il contributo del patrimonio privato, in modo progressivo e oltre una certa soglia. Forse, anziché lanciarsi messaggi via stampa o inscenare presunte battaglie di principio in Europa, converrebbe mettersi a studiare le diverse modalità pratiche di questa idea. Ci sono fior di economisti che ne hanno parlato e si sono documentati. E che, gratis, farebbero volentieri una consulenza al presidente Renzi e al sottosegretario Delrio.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.