Referendum: una scialuppa di salvataggio
Vera vittoria riformista?
Non fermiamoci al minimalismo degli obiettivi, ma guardiamo oltredi Enrico Cisnetto - 15 ottobre 2007
Se l’affermazione schiacciante del sì al referendum sul welfare (82%) fosse la premessa dell’avvento di una nuova stagione delle relazioni industriali, che butti a mare una volta per tutte l’ideologia e si confronti in maniera pragmatica con il declino del Paese, dovremmo tutti festeggiare. Ma davvero si può parlare di “vittoria del riformismo” quando il fronte favorevole al protocollo firmato tra governo e parti sociali era compattato da due parole d’ordine come “vota sì per evitare Berlusconi” e “ogni modifica non può che essere peggiorativa”? Certo, dopo uno scontro così marcato con i “duri e puri”, annidiati nella Fiom, il risultato non può che essere visto con favore da chi auspica un sindacato riformista. Ma è a dir poco paradossale che questo avvenga attraverso il “salvataggio” di un accordo che, tanto sul fronte della previdenza quanto su quello della normativa del mercato del lavoro, ha molti motivi per essere definito conservatore. Tanto più che nel governo nemmeno il referendum e i ritocchi al protocollo concessi da Prodi sono bastati per far passare all’unanimità l’accordo.
Per questo, oggi, unirsi al coro delle grida di giubilo rischia di trasformarsi in un ennesimo effetto-narcotico per quelle forze politiche e sociali che tendono a dormire sugli allori. Anzi, chi vuole davvero aiutare i riformisti a vincere deve capire che il minimalismo degli obiettivi è pericoloso, e di conseguenza deve spingersi fino in fondo nell’analisi dei risultati. In primo luogo, è impossibile non notare che, anche senza dare retta alla denuncia di brogli tirata fuori da Marco Rizzo, gli stessi dati forniti dai sindacati indicano chiaramente che non è tutto oro quello che luccica. Intanto, Cgil, Cisl e Uil hanno permesso di votare anche ai pensionati – il 73% di essi, secondo i risultati provvisori, ha dato l’ok al protocollo – e questo, per un accordo che non interessava direttamente quella categoria (visto che riguardava chi dal lavoro si deve ancora ritirare), pare davvero un’incoerenza, che però ha contribuito significativamente alla vittoria del sì. In secondo luogo, nelle grandi fabbriche – dagli stabilimenti Fiat all’Ansaldo e all’Electrolux, passando per la Fincantieri – il No ha ottenuto percentuali bulgare, in alcuni casi vicine addirittura al 90%.
E visto l’ideal-tipo di lavoratore che presta la sua opera in queste aziende – di mezz’età, fortemente sindacalizzato ed ideologizzato – si può affermare che il sindacalismo di base, seppur sconfitto dai numeri totali, esce dalla battaglia del referendum dando l’impressione di essere dotato di grande forza politica. A questo punto, però, deve essere anche chiaro che la “minoranza agguerrita” della Fiom non ha alcuna intenzione di fare i conti con la realtà economica europea e mondiale, avendo bocciato un accordo che, sulle pensioni, è molto peggiorativo rispetto agli standard degli altri paesi, e che, sulla flessibilità del mercato del lavoro fa di un punto di partenza (la Biagi) un punto d’arrivo. La palla quindi passa di nuovo a Cgil, Cisl e Uil, le quali, una volta per tutte, debbono scegliere tra chi segue la linea riformista e chi non ha la minima intenzione di farlo. Lasciandolo andare i massimalisti per la loro strada. Perderebbero forse qualcosa in rappresentanza, ma guadagnerebbero molto in termini di credibilità. E di sicuro ne varrebbe la pena.
Per questo, oggi, unirsi al coro delle grida di giubilo rischia di trasformarsi in un ennesimo effetto-narcotico per quelle forze politiche e sociali che tendono a dormire sugli allori. Anzi, chi vuole davvero aiutare i riformisti a vincere deve capire che il minimalismo degli obiettivi è pericoloso, e di conseguenza deve spingersi fino in fondo nell’analisi dei risultati. In primo luogo, è impossibile non notare che, anche senza dare retta alla denuncia di brogli tirata fuori da Marco Rizzo, gli stessi dati forniti dai sindacati indicano chiaramente che non è tutto oro quello che luccica. Intanto, Cgil, Cisl e Uil hanno permesso di votare anche ai pensionati – il 73% di essi, secondo i risultati provvisori, ha dato l’ok al protocollo – e questo, per un accordo che non interessava direttamente quella categoria (visto che riguardava chi dal lavoro si deve ancora ritirare), pare davvero un’incoerenza, che però ha contribuito significativamente alla vittoria del sì. In secondo luogo, nelle grandi fabbriche – dagli stabilimenti Fiat all’Ansaldo e all’Electrolux, passando per la Fincantieri – il No ha ottenuto percentuali bulgare, in alcuni casi vicine addirittura al 90%.
E visto l’ideal-tipo di lavoratore che presta la sua opera in queste aziende – di mezz’età, fortemente sindacalizzato ed ideologizzato – si può affermare che il sindacalismo di base, seppur sconfitto dai numeri totali, esce dalla battaglia del referendum dando l’impressione di essere dotato di grande forza politica. A questo punto, però, deve essere anche chiaro che la “minoranza agguerrita” della Fiom non ha alcuna intenzione di fare i conti con la realtà economica europea e mondiale, avendo bocciato un accordo che, sulle pensioni, è molto peggiorativo rispetto agli standard degli altri paesi, e che, sulla flessibilità del mercato del lavoro fa di un punto di partenza (la Biagi) un punto d’arrivo. La palla quindi passa di nuovo a Cgil, Cisl e Uil, le quali, una volta per tutte, debbono scegliere tra chi segue la linea riformista e chi non ha la minima intenzione di farlo. Lasciandolo andare i massimalisti per la loro strada. Perderebbero forse qualcosa in rappresentanza, ma guadagnerebbero molto in termini di credibilità. E di sicuro ne varrebbe la pena.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.