L'abolizione del canone
VedRai
Privatizzazione Rai: c'è davvero bisogno di un servizio pubblico?di Davide Giacalone - 10 gennaio 2012
Aspettiamo, da molti anni, che la Rai smetta d’essere una televisione di Stato, sopravvivenza fossile, ma costosissima, del monopolio. Aspettiamo, da troppo, che con la sua restituzione al mercato si crei effettiva competizione e si cancelli l’obbrobrio del canone. Aspettiamo da tanto di quel tempo, avendo proposto e riproposto di cambiare l’andazzo, che certo non ci scompongono le settimane chieste da Mario Monti. “Mi dia qualche settimana e lei vedrà”, ha detto ad un puntutissimo Fabio Fazio (già che c’era poteva fare una benignata e baciare il professore). E lo ha detto, dagli schermi della Rai, dopo avere premesso che non è affatto giusto chiedere risposte immediate a chi governa, laddove è assai più saggio che si facciano le domande e si lasci il tempo per pensarci. Si figuri, ci mancherebbe altro. Benché ho l’impressione che il costume delle conferenze stampa e delle interviste necessiti dell’esatto contrario, perché chi governa deve rispondere, dicendo quel che ha in testa di voler fare.
Ma non saranno alcune settimane a metterci in ansia. Monti se le prenda tutte. Magari non le chieda né alla Rai, né a chi lo intervista. Ma se le prenda. Nel frattempo noi avremmo da fare un’osservazione: la Rai è materia governativa? Perché uno dei vanti delle passate riforme, salutate con giubilo da quanti credono all’importanza del servizio pubblico (e noi non siamo fra quelli), era proprio la parlamentarizzazione del controllo. C’è tutta una storia, che porta a quel risultato: parte dalla Rai di Bernabei, controllata in via esclusiva dalla democrazia cristiana, e per essa, a lungo, da Amintore Fanfani; passa per la nascita delle due ulteriori reti, quindi per quella spartizione che fu considerata consustanziale al pluralismo; giunge alla nomina degli amministratori affidata ai vertici parlamentari, sempre confermando la funzione-disfunzione della commissione parlamentare di vigilanza. Insomma, il coretto unanime dei devoti alla Rai e al servizio pubblico ha fin qui considerato vitale che la faccenda non fosse governativa. Hanno cambiato idea, o hanno perso la voce?
Visto che a me quella roba non è mai piaciuta (senza mai tacerlo), non mi scandalizzo punto per l’annuncio montiano di un futuro, ma imminente intervento. Anzi, plaudo. Solo che trovo singolare ci si rivolga al Paese come ci si rivolge a bimbi discoli o alla prole speranzosa: aspettate e vedrete. Se non è un nuovo gioco di società, basato sull’indovinello, è un discreto rebus politico: il governo annuncia di riprendere in mano la gestione, o l’indirizzo, o la sorte della televisione pubblica, senza mai avere neanche lontanamente accennato, prima di una trasmissione televisiva prodotta in casa degli interessati, e dopo avere premesso che alle domande si risponde con comodo, in che direzione e con quale approdo ciò avverrà. Avvincente.
La cosa è talmente interessante che qui proviamo a renderci utili, riassumendo quel che si può fare. Intanto non si può vendere l’intera baracca, perché la legge lo rende impossibile. Una legge che pone il limite dell’uno per cento al possesso delle azioni è, ovviamente, indirizzata non a creare una pubblic company, ma a impedire la privatizzazione. Tale è la legge voluta e votata dal centro destra, due legislature or sono. Quella stessa legge, però, da tempo permettere di vendere “rami d’azienda”, che è un sano modo botanico di sollecitare lo sfrondamento. Quindi si possono vendere reti (la Rai ne ha talmente tante che ci vuole una sfrenata fantasia per considerarle tutte dedite al servizio pubblico), stabilimenti, impianti e produzioni. Lo si faccia.
Restituendo questi mezzi di trasmissione al mercato si possono fare due cose meravigliose: togliere il limite alla raccolta pubblicitaria e collocare al museo il canone. In questo modo si avrà vera competizione, talché ciascun editore dovrà tenere in equilibrio l’affollamento pubblicitario con il bisogno di trattenere gli spettatori (che se se ne vanno o cambiano canale fanno scendere il valore economico degli spot). E’ il mercato il miglior giudice di quale sia la soglia del fastidio non il legislatore o il regolatore. Ed è il mercato a creare gli spazi per la televisione a pagamento, ovvero per la libera scelta di pagare, di tasca propria, un minore affollamento pubblicitario, o una maggiore qualità, o l’accesso a contenuti particolari. A quel punto il mercato avrebbe bisogno d’essere controllato solo sotto l’aspetto dell’antitrust, per evitare che si creino cartelli dediti ad ostacolare la concorrenza, siano essi formati nel campo delle reti o della vendita pubblicitaria. Così si chiude anche l’Agcom, ovvero un’autorità già da tempo inutile.
L’abolizione del canone servirà ad evitare che per il tramite di una tassa, odiosissima di suo, ma amministrata in modo da renderla insopportabile, ciascun cittadino sia tenuto a finanziare un intero sistema. Perché il canone finanzia la Rai, ma per il tramite dei limiti pubblicitari a questa imposti finanzia anche gli altri. Basta, fine dello sconcio. Così evitiamo anche che in nome del canone si buttino soldi per produrre spot pubblicitari destinati a promuoverne il pagamento, laddove, come l’ultimo preparato, sembrano idonei, più che altro, a moltiplicare l’indignazione. C’è comunque bisogno di un servizio pubblico? Non solo non lo credo, ma neanche so che cosa sia. E’ roba che ha a che vedere con l’informazione? Nel qual caso sarebbe servizio pubblico la lottizzazione. Ha a che vedere con l’educazione? Già mi s’accappona la pelle, che si rilassa solo assistendo al ridicolo dei quiz ridotti a numeri di scatole (con Febo Conti e Mike Buongiorno, almeno, quattro cose dovevi saperle, adesso si va a botte di fortuna). Ha a che vedere con lo spettacolo colto? Colto de che? Colto in flagrante sbirciamento di culi.
Ma, insomma, sono pur disposto ad ammettere che ci sia qualcuno, fin qui silente e nascosto, capace di definire e produrre un servizio pubblico: gli basti una rete. Gliela paghiamo con la fiscalità generale. Dunque, fra qualche settimana sapremo. Che bello. Spero non sia un commissario dedito ad una più sobria spartizione, perché, in quel caso, sarebbe colpiti da tecnica delusione.
Ma non saranno alcune settimane a metterci in ansia. Monti se le prenda tutte. Magari non le chieda né alla Rai, né a chi lo intervista. Ma se le prenda. Nel frattempo noi avremmo da fare un’osservazione: la Rai è materia governativa? Perché uno dei vanti delle passate riforme, salutate con giubilo da quanti credono all’importanza del servizio pubblico (e noi non siamo fra quelli), era proprio la parlamentarizzazione del controllo. C’è tutta una storia, che porta a quel risultato: parte dalla Rai di Bernabei, controllata in via esclusiva dalla democrazia cristiana, e per essa, a lungo, da Amintore Fanfani; passa per la nascita delle due ulteriori reti, quindi per quella spartizione che fu considerata consustanziale al pluralismo; giunge alla nomina degli amministratori affidata ai vertici parlamentari, sempre confermando la funzione-disfunzione della commissione parlamentare di vigilanza. Insomma, il coretto unanime dei devoti alla Rai e al servizio pubblico ha fin qui considerato vitale che la faccenda non fosse governativa. Hanno cambiato idea, o hanno perso la voce?
Visto che a me quella roba non è mai piaciuta (senza mai tacerlo), non mi scandalizzo punto per l’annuncio montiano di un futuro, ma imminente intervento. Anzi, plaudo. Solo che trovo singolare ci si rivolga al Paese come ci si rivolge a bimbi discoli o alla prole speranzosa: aspettate e vedrete. Se non è un nuovo gioco di società, basato sull’indovinello, è un discreto rebus politico: il governo annuncia di riprendere in mano la gestione, o l’indirizzo, o la sorte della televisione pubblica, senza mai avere neanche lontanamente accennato, prima di una trasmissione televisiva prodotta in casa degli interessati, e dopo avere premesso che alle domande si risponde con comodo, in che direzione e con quale approdo ciò avverrà. Avvincente.
La cosa è talmente interessante che qui proviamo a renderci utili, riassumendo quel che si può fare. Intanto non si può vendere l’intera baracca, perché la legge lo rende impossibile. Una legge che pone il limite dell’uno per cento al possesso delle azioni è, ovviamente, indirizzata non a creare una pubblic company, ma a impedire la privatizzazione. Tale è la legge voluta e votata dal centro destra, due legislature or sono. Quella stessa legge, però, da tempo permettere di vendere “rami d’azienda”, che è un sano modo botanico di sollecitare lo sfrondamento. Quindi si possono vendere reti (la Rai ne ha talmente tante che ci vuole una sfrenata fantasia per considerarle tutte dedite al servizio pubblico), stabilimenti, impianti e produzioni. Lo si faccia.
Restituendo questi mezzi di trasmissione al mercato si possono fare due cose meravigliose: togliere il limite alla raccolta pubblicitaria e collocare al museo il canone. In questo modo si avrà vera competizione, talché ciascun editore dovrà tenere in equilibrio l’affollamento pubblicitario con il bisogno di trattenere gli spettatori (che se se ne vanno o cambiano canale fanno scendere il valore economico degli spot). E’ il mercato il miglior giudice di quale sia la soglia del fastidio non il legislatore o il regolatore. Ed è il mercato a creare gli spazi per la televisione a pagamento, ovvero per la libera scelta di pagare, di tasca propria, un minore affollamento pubblicitario, o una maggiore qualità, o l’accesso a contenuti particolari. A quel punto il mercato avrebbe bisogno d’essere controllato solo sotto l’aspetto dell’antitrust, per evitare che si creino cartelli dediti ad ostacolare la concorrenza, siano essi formati nel campo delle reti o della vendita pubblicitaria. Così si chiude anche l’Agcom, ovvero un’autorità già da tempo inutile.
L’abolizione del canone servirà ad evitare che per il tramite di una tassa, odiosissima di suo, ma amministrata in modo da renderla insopportabile, ciascun cittadino sia tenuto a finanziare un intero sistema. Perché il canone finanzia la Rai, ma per il tramite dei limiti pubblicitari a questa imposti finanzia anche gli altri. Basta, fine dello sconcio. Così evitiamo anche che in nome del canone si buttino soldi per produrre spot pubblicitari destinati a promuoverne il pagamento, laddove, come l’ultimo preparato, sembrano idonei, più che altro, a moltiplicare l’indignazione. C’è comunque bisogno di un servizio pubblico? Non solo non lo credo, ma neanche so che cosa sia. E’ roba che ha a che vedere con l’informazione? Nel qual caso sarebbe servizio pubblico la lottizzazione. Ha a che vedere con l’educazione? Già mi s’accappona la pelle, che si rilassa solo assistendo al ridicolo dei quiz ridotti a numeri di scatole (con Febo Conti e Mike Buongiorno, almeno, quattro cose dovevi saperle, adesso si va a botte di fortuna). Ha a che vedere con lo spettacolo colto? Colto de che? Colto in flagrante sbirciamento di culi.
Ma, insomma, sono pur disposto ad ammettere che ci sia qualcuno, fin qui silente e nascosto, capace di definire e produrre un servizio pubblico: gli basti una rete. Gliela paghiamo con la fiscalità generale. Dunque, fra qualche settimana sapremo. Che bello. Spero non sia un commissario dedito ad una più sobria spartizione, perché, in quel caso, sarebbe colpiti da tecnica delusione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.