Paradisi fiscali e azioni di contrasto adeguate
Uno “scudo fiscale ter”
Urgono accordi di scambio a livello internazionale e rigorosa disciplina internadi Angelo De Mattia - 09 aprile 2009
Quattro Paesi (Uruguay, Filippine, Malaysia e Costa Rica) sono usciti dalla lista nera dei paradisi legali e fiscali curata dall’Ocse – della quale facevano parte – e sono entrati in quella “grigia”, aggregandosi agli altri 38 che la compongono; ora fanno parte del novero dei Paesi impegnati a collaborare con gli altri Stati ai fini dello scambio di dati e informazioni in materia fiscale. Si è subito osservato che questo ravvedimento – si spera, operoso – è l’effetto delle decisioni del recente G20 londinese che sul tema dei paradisi legali e fiscali ha lungamente discusso e che, per trovare un punto di mediazione tra le diverse posizioni e sancire un impegno anti-centri offshore, ha dovuto usare una tecnica deliberativa “ob relationem”, facendo, appunto, riferimento alla lista Ocse per recepirla.
E’ possibile che l’impegno a collaborare dei “quattro” sia conseguenza, oltre che dei deliberati del G20, del generale clima che si è diffuso a livello internazionale contro le zone franche, soprattutto perché si è esteso il convincimento che l’operatività transitata per quei centri ha concorso allo sviluppo di un “sistema finanziario ombra”, la formazione e l’espansione del quale sono state tra le cause della crisi finanziaria.
Per spiegarsi l’ingegnoso meccanismo deliberativo del Vertice di Londra, non vanno trascurate le resistenze, in passato, degli Usa – manifestatesi anche nei diversi incontri dei “G.” – a un intervento deciso per indurre i centri offshore a collaborazioni interstatuali, a fini fiscali. Il cambiamento di impostazione, coincidente con il rinnovo dell’Amministrazione americana, non poteva essere radicale, nonostante le pressioni di Germania e Francia.
Ora, comunque, la crisi ha fatto sì che questo problema venisse finalmente affrontato, con la conseguenza che la situazione odierna è certamente migliore rispetto a quando si guardava, da molti Paesi, ai paradisi in questione, accettandone tout court l’esistenza; anzi, consentendo gli insediamenti in essi con la motivazione di non potere sfavorire i propri residenti, persone fisiche e giuridiche, sul piano della competitività con altri soggetti esteri. Naturalmente, un’azione di contrasto adeguata presuppone non solo accordi internazionali sullo scambio di informazioni ma anche, in previsione o in coincidenza con tali intese, una rafforzata disciplina sanzionatoria da adottare da parte dei singoli Stati nei confronti delle persone fisiche e giuridiche che comunque operino in tali centri (pur sussistendo le “vie di fuga” delle triangolazioni con altri Paesi).
Accordi di scambio a livello internazionale e rigorosa disciplina interna dovrebbero essere il presupposto per riesaminare la praticabilità di uno “scudo fiscale ter”, della cui normativa si è annunciata l’eventualità della sottoposizione al Consiglio dei Ministri. In questo momento, nel quale per il nostro Paese si combinano la crisi finanziaria ed economica e la grande tragedia del terremoto in Abruzzo – con l’assoluta necessità di ricostruire in tempi rapidi e in maniera efficiente i centri segnati da tanti lutti e sofferenze – il rientro dei capitali detenuti nei “paradisi” è una ipotesi che non va esclusa, nel quadro del reperimento delle occorrenti risorse finanziarie.
Ma alcuni punti fermi andrebbero posti. La forma anonima del reimpatrio dovrebbe essere condizionata all’assolvimento di un’imposta e all’impiego dei fondi in specifici settori. Dovrebbe essere fissato un termine, molto stretto, entro il quale attuare il rientro, dopodiché scatterebbe il più rigoroso regime sanzionatorio.
Si tratterebbe di una sanatoria, di un ritornante condono? Sarebbe la ripetizione delle precedenti due edizioni di “scudo fiscale” che non hanno poi dato risultati così lusinghieri? Certo, l’effetto-sanatoria con ciò che esso induce nei comportamenti dei cittadini non è esaltante.
E’ classico di un provvedimento di condono generare una diffusa aspettativa di ulteriori misure della specie, almeno nel medio termine: dunque, incidere sulla visione della stabilità dell’ordinamento, in definitiva sulla certezza del diritto. E le affermazioni sovente ripetute da esponenti di Governo “mai più condoni” restano proclami puntualmente inattuati.
Tuttavia, nel nostro caso, la sanatoria per i capitali rientranti – che, si stima, potrebbero raggiungere e superare, anche di molto, la cifra di 100 miliardi – sarebbe accompagnata dagli accennati interventi normativi e, dunque, replicherebbe – sia pure in condizioni enormemente diversi – ciò che avvenne a metà degli anni ’70 del secolo scorso, quando, al passaggio delle esportazioni illegittime di capitali da illecito amministrativo a illecito penale, si concesse una sanatoria per il reimpatrio, entro un periodo limitato, dei capitali irregolarmente detenuti all’estero.
Fondamentale sarebbe, altresì, uno stretto coordinamento a livello di Unione europea per valutare la fattibilità di un’operazione come quella in discorso. Sarebbe assurda una competizione, nella Ue, nell’agevolazione dei rientri.
La tragedia che si è abbattuta sull’Abruzzo non può certo essere occasione per forzare la mano sul piano del pure assolutamente necessario reperimento delle risorse; anzi, è motivo di maggiore rigore nei comportamenti dell’ uomo, riguardino essi il settore finanziario o il comparto urbanistico ed edilizio.
La ricostruzione in quelle terre martoriate – che, per onorare la memoria delle tante vittime, dovrà essere uno specchio di trasparenza, correttezza, tempestività – non potrà decollare con un provvedimento di sostegno finanziario, diretto o indiretto, che susciti dubbi.
Intanto, l’essere inclusi nella lista “grigia” non è un edificante segnale: sta ad attestare un presupposto, consistente nel descritto impegno a collaborare. Bisogna, allora, passare subito dalla “potenza” all’ “atto”, avviando rapidamente le stipule formali delle intese di collaborazione con i singoli Stati facenti parte dell’Ocse.
E’ possibile che l’impegno a collaborare dei “quattro” sia conseguenza, oltre che dei deliberati del G20, del generale clima che si è diffuso a livello internazionale contro le zone franche, soprattutto perché si è esteso il convincimento che l’operatività transitata per quei centri ha concorso allo sviluppo di un “sistema finanziario ombra”, la formazione e l’espansione del quale sono state tra le cause della crisi finanziaria.
Per spiegarsi l’ingegnoso meccanismo deliberativo del Vertice di Londra, non vanno trascurate le resistenze, in passato, degli Usa – manifestatesi anche nei diversi incontri dei “G.” – a un intervento deciso per indurre i centri offshore a collaborazioni interstatuali, a fini fiscali. Il cambiamento di impostazione, coincidente con il rinnovo dell’Amministrazione americana, non poteva essere radicale, nonostante le pressioni di Germania e Francia.
Ora, comunque, la crisi ha fatto sì che questo problema venisse finalmente affrontato, con la conseguenza che la situazione odierna è certamente migliore rispetto a quando si guardava, da molti Paesi, ai paradisi in questione, accettandone tout court l’esistenza; anzi, consentendo gli insediamenti in essi con la motivazione di non potere sfavorire i propri residenti, persone fisiche e giuridiche, sul piano della competitività con altri soggetti esteri. Naturalmente, un’azione di contrasto adeguata presuppone non solo accordi internazionali sullo scambio di informazioni ma anche, in previsione o in coincidenza con tali intese, una rafforzata disciplina sanzionatoria da adottare da parte dei singoli Stati nei confronti delle persone fisiche e giuridiche che comunque operino in tali centri (pur sussistendo le “vie di fuga” delle triangolazioni con altri Paesi).
Accordi di scambio a livello internazionale e rigorosa disciplina interna dovrebbero essere il presupposto per riesaminare la praticabilità di uno “scudo fiscale ter”, della cui normativa si è annunciata l’eventualità della sottoposizione al Consiglio dei Ministri. In questo momento, nel quale per il nostro Paese si combinano la crisi finanziaria ed economica e la grande tragedia del terremoto in Abruzzo – con l’assoluta necessità di ricostruire in tempi rapidi e in maniera efficiente i centri segnati da tanti lutti e sofferenze – il rientro dei capitali detenuti nei “paradisi” è una ipotesi che non va esclusa, nel quadro del reperimento delle occorrenti risorse finanziarie.
Ma alcuni punti fermi andrebbero posti. La forma anonima del reimpatrio dovrebbe essere condizionata all’assolvimento di un’imposta e all’impiego dei fondi in specifici settori. Dovrebbe essere fissato un termine, molto stretto, entro il quale attuare il rientro, dopodiché scatterebbe il più rigoroso regime sanzionatorio.
Si tratterebbe di una sanatoria, di un ritornante condono? Sarebbe la ripetizione delle precedenti due edizioni di “scudo fiscale” che non hanno poi dato risultati così lusinghieri? Certo, l’effetto-sanatoria con ciò che esso induce nei comportamenti dei cittadini non è esaltante.
E’ classico di un provvedimento di condono generare una diffusa aspettativa di ulteriori misure della specie, almeno nel medio termine: dunque, incidere sulla visione della stabilità dell’ordinamento, in definitiva sulla certezza del diritto. E le affermazioni sovente ripetute da esponenti di Governo “mai più condoni” restano proclami puntualmente inattuati.
Tuttavia, nel nostro caso, la sanatoria per i capitali rientranti – che, si stima, potrebbero raggiungere e superare, anche di molto, la cifra di 100 miliardi – sarebbe accompagnata dagli accennati interventi normativi e, dunque, replicherebbe – sia pure in condizioni enormemente diversi – ciò che avvenne a metà degli anni ’70 del secolo scorso, quando, al passaggio delle esportazioni illegittime di capitali da illecito amministrativo a illecito penale, si concesse una sanatoria per il reimpatrio, entro un periodo limitato, dei capitali irregolarmente detenuti all’estero.
Fondamentale sarebbe, altresì, uno stretto coordinamento a livello di Unione europea per valutare la fattibilità di un’operazione come quella in discorso. Sarebbe assurda una competizione, nella Ue, nell’agevolazione dei rientri.
La tragedia che si è abbattuta sull’Abruzzo non può certo essere occasione per forzare la mano sul piano del pure assolutamente necessario reperimento delle risorse; anzi, è motivo di maggiore rigore nei comportamenti dell’ uomo, riguardino essi il settore finanziario o il comparto urbanistico ed edilizio.
La ricostruzione in quelle terre martoriate – che, per onorare la memoria delle tante vittime, dovrà essere uno specchio di trasparenza, correttezza, tempestività – non potrà decollare con un provvedimento di sostegno finanziario, diretto o indiretto, che susciti dubbi.
Intanto, l’essere inclusi nella lista “grigia” non è un edificante segnale: sta ad attestare un presupposto, consistente nel descritto impegno a collaborare. Bisogna, allora, passare subito dalla “potenza” all’ “atto”, avviando rapidamente le stipule formali delle intese di collaborazione con i singoli Stati facenti parte dell’Ocse.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.