Berlusconi-Fini: vero divorzio?
Una rupture all'italiana
Comunque vada, la partita in gioco è difficilissima per tuttidi Enrico Cisnetto - 19 aprile 2010
Non è una gran parabola, quella del centro-destra: doveva realizzare la “rupture”, nel senso del grande cambiamento del Paese come Sarkozy aveva promesso alla Francia, ed invece, più banalmente, è “rottura” dentro il partito di maggioranza relativa, e per di più tra i due cofondatori.
Ancora una volta Silvio Berlusconi ha trovato un nemico, anzi un traditore visto che milita nelle sue fila, e con esso si costruisce un alibi – reggerà anche questa volta? – per giustificare agli occhi degli italiani sempre più stanchi (come dimostrano le ultime elezioni, nelle quali il Pdl ha perso voti in assoluto e solo un italiano su sette ha dato il suo consenso alle forze politiche dell’attuale esecutivo) il non governo del Paese.
Che poi questo gli serva per andare avanti nella legislatura e tentare di fare le cose che ha in testa (riforma della giustizia, a modo suo, e presidenzialismo per quando cercherà di andare al Quirinale) o invece usi la “rottura” per ripescare il progetto dello scorso inverno di andare alle elezioni anticipate nella speranza di fare banco, lo vedremo. Così come è tutto da vedere se il ricatto dell’interruzione della legislatura funzioni davvero, vista l’ostilità del Colle e la possibilità di un governo “diverso”.
Ma per la verità, prima di tutto staremo a vedere se davvero si consumerà fino in fondo il divorzio tra Berlusconi e Fini, visto che, come ha saggiamente suggerito Folli ieri sul Sole 24 Ore, a ben pensarci sia il premier che il presidente della Camera hanno entrambi più da perdere che da guadagnare dalla “rottura”. Alcuni pontieri sono al lavoro, può darsi che ancora una volta, come è già successo, la corda non si spezzi. Nell’uno come nell’altro caso, però, la rottura politica si è già prodotta (da tempo, peraltro) e non sarà assolutamente sanabile.
Dunque, una cosa è certa: il Cavaliere è rimasto solo, da un lato vittima della sua concezione padronale della politica che lo ha spinto a rompere i rapporti con tutti coloro che a vario titolo e in momenti diversi hanno tentato di far valere il diritto di esistere politicamente (Follini, Casini, Pera, Fini), e dall’altro prigioniero dell’incubo del ’94, cioè la paura che Bossi gli potesse ripetere lo scherzo del ribaltone, da cui ha fatto discendere un progressivo asservimento suo e dei suoi governi alla Lega.
Forse in termini di consenso elettorale non ha pagato dazio – ma anche la Dc del dopoguerra avrebbe potuto fare a meno dei partiti laici suoi alleati sul piano numerico, eppure De Gasperi non commise questo errore – ma certo ha finito sia per isolarsi che per vincolarsi, e questo certo non depone né a suo favore né a favore della sua politica e dei suoi governi.
Berlusconi doveva essere l’uomo che avrebbe cambiato la politica semplificandola, ma paradossalmente quanto più è rimasto solo tanto più ha finito per complicarla maggiormente perché ha prodotto nel Paese una tale lacerazione – non solo per colpa sua, s’intende, la sinistra giustizialista ha dato un contributo altrettanto determinante – che ha finito con l’allontanare ancora di più la società civile dalle istituzioni.
Risultato peraltro inevitabile se si è preteso di costruire il Pdl in una forma ancor meno somigliante a quella di un partito di quanto non fosse Forza Italia. Ma se per quest’ultima la spiegazione c’era – l’essere nata dal nulla nel tentativo (riuscito) di riempire il vuoto creato da Tangentopoli nella rappresentanza dell’area moderata, oltre che nel tentativo (più che riuscito) di mettere in salvo il suo impero minacciato – non c’è certo alcuna giustificazione al fatto che 15 anni dopo la famosa “discesa in campo” si dovesse ricorrere all’estemporanea esternazione sul predellino di un’auto per mettere insieme i diversi pezzi del centro-destra e dar vita ad un nuovo soggetto politico.
Fini avrebbe voluto rompere in quel momento, ma si accorse che quasi tutto il suo partito era già passato con Berlusconi, e non gli rimase che soccombere. Salvo poi aprire – forte anche del suo ruolo istituzionale – un fronte di guerriglia politica, essendo arrivato alla conclusione, giusta ma tardiva, che lo schema del Cavaliere non prevedeva, e tuttora non prevede, la scelta di un successore, così come non contempla la costruzione di un partito vero, dotato di un pensiero, di spazi di discussione e di confronto e, se del caso, di un’articolazione interna.
Mi limito ad osservare qui quanto ho personalmente detto a Fini a più riprese: il leader di An avrebbe dovuto già durante la legislatura 2001-2006, e a maggior ragione nei due anni del governo Prodi, spostare al centro il suo partito, provocando una scissione a destra ben più significativa di quella subita da Storace, e allearsi da posizioni laiche con Casini. Questo, tra l’altro, gli avrebbe consentito un lavoro di elaborazione politico-programmatica ben più consistente e significativo di quello fatto poi con Fare Futuro, la cui mancanza oggi Fini paga dando a larghi strati dell’opinione pubblica moderata la sensazione di muoversi solo per ragioni tattiche e di potere e gli costa la bollatura – certo ingenerosa, ma di cui deve tener conto – di “traditore”. Non aver fatto per tempo quel passaggio, subordinando ogni ragionamento politico all’idea di potersi conquistare il ruolo di successore di Berlusconi agendo per linee interne, lo ha poi costretto ad accettare il “predellino”, il Pdl padronale e l’egemonia politica sul governo della Lega.
Tuttavia, al punto in cui sono arrivate le cose, la voglia di rottura di Fini appare non solo comprensibile, ma anche sostanzialmente inevitabile. C’è solo un problema di mezzo: le eventuali elezioni anticipate. Berlusconi ci ha provato con tutte le sue forze lo scorso anno, e su questo giornale ho più insistito nel descrivere quel disegno sottaciuto ma neppure troppo nascosto. Non c’è riuscito, anche perché Fini ha cercato di non dargli modo di arrivarci quando si è accorto che andare al voto sarebbe stato un danno per tutti, a cominciare dal Paese, ma non per Berlusconi. Il risultato favorevole al premier delle regionali – seppure solo in termini relativi e non assoluti – lo conferma. E indica a Fini nuovamente il pericolo di un’eventualità del genere.
Nello stesso tempo, per Berlusconi continuare a evocare nemici, complotti e necessità di (ri)verifiche elettorali non può essere un gioco ripetibile all’infinito. Gli italiani sono stanchi, come si vede dall’aumento dell’astensionismo, e vorrebbero che si facessero le grandi riforme strutturali di cui si parla da anni, affrancando il Paese dal declino e dalla marginalizzazione, e anche il mitico Cavaliere (nel senso che prendere i voti è davvero una cosa che sa far bene) potrebbe trovarsi di colpo privo di quel consenso che finora l’ha sostenuto. Partita difficile, difficilissima. Per tutti.
Ancora una volta Silvio Berlusconi ha trovato un nemico, anzi un traditore visto che milita nelle sue fila, e con esso si costruisce un alibi – reggerà anche questa volta? – per giustificare agli occhi degli italiani sempre più stanchi (come dimostrano le ultime elezioni, nelle quali il Pdl ha perso voti in assoluto e solo un italiano su sette ha dato il suo consenso alle forze politiche dell’attuale esecutivo) il non governo del Paese.
Che poi questo gli serva per andare avanti nella legislatura e tentare di fare le cose che ha in testa (riforma della giustizia, a modo suo, e presidenzialismo per quando cercherà di andare al Quirinale) o invece usi la “rottura” per ripescare il progetto dello scorso inverno di andare alle elezioni anticipate nella speranza di fare banco, lo vedremo. Così come è tutto da vedere se il ricatto dell’interruzione della legislatura funzioni davvero, vista l’ostilità del Colle e la possibilità di un governo “diverso”.
Ma per la verità, prima di tutto staremo a vedere se davvero si consumerà fino in fondo il divorzio tra Berlusconi e Fini, visto che, come ha saggiamente suggerito Folli ieri sul Sole 24 Ore, a ben pensarci sia il premier che il presidente della Camera hanno entrambi più da perdere che da guadagnare dalla “rottura”. Alcuni pontieri sono al lavoro, può darsi che ancora una volta, come è già successo, la corda non si spezzi. Nell’uno come nell’altro caso, però, la rottura politica si è già prodotta (da tempo, peraltro) e non sarà assolutamente sanabile.
Dunque, una cosa è certa: il Cavaliere è rimasto solo, da un lato vittima della sua concezione padronale della politica che lo ha spinto a rompere i rapporti con tutti coloro che a vario titolo e in momenti diversi hanno tentato di far valere il diritto di esistere politicamente (Follini, Casini, Pera, Fini), e dall’altro prigioniero dell’incubo del ’94, cioè la paura che Bossi gli potesse ripetere lo scherzo del ribaltone, da cui ha fatto discendere un progressivo asservimento suo e dei suoi governi alla Lega.
Forse in termini di consenso elettorale non ha pagato dazio – ma anche la Dc del dopoguerra avrebbe potuto fare a meno dei partiti laici suoi alleati sul piano numerico, eppure De Gasperi non commise questo errore – ma certo ha finito sia per isolarsi che per vincolarsi, e questo certo non depone né a suo favore né a favore della sua politica e dei suoi governi.
Berlusconi doveva essere l’uomo che avrebbe cambiato la politica semplificandola, ma paradossalmente quanto più è rimasto solo tanto più ha finito per complicarla maggiormente perché ha prodotto nel Paese una tale lacerazione – non solo per colpa sua, s’intende, la sinistra giustizialista ha dato un contributo altrettanto determinante – che ha finito con l’allontanare ancora di più la società civile dalle istituzioni.
Risultato peraltro inevitabile se si è preteso di costruire il Pdl in una forma ancor meno somigliante a quella di un partito di quanto non fosse Forza Italia. Ma se per quest’ultima la spiegazione c’era – l’essere nata dal nulla nel tentativo (riuscito) di riempire il vuoto creato da Tangentopoli nella rappresentanza dell’area moderata, oltre che nel tentativo (più che riuscito) di mettere in salvo il suo impero minacciato – non c’è certo alcuna giustificazione al fatto che 15 anni dopo la famosa “discesa in campo” si dovesse ricorrere all’estemporanea esternazione sul predellino di un’auto per mettere insieme i diversi pezzi del centro-destra e dar vita ad un nuovo soggetto politico.
Fini avrebbe voluto rompere in quel momento, ma si accorse che quasi tutto il suo partito era già passato con Berlusconi, e non gli rimase che soccombere. Salvo poi aprire – forte anche del suo ruolo istituzionale – un fronte di guerriglia politica, essendo arrivato alla conclusione, giusta ma tardiva, che lo schema del Cavaliere non prevedeva, e tuttora non prevede, la scelta di un successore, così come non contempla la costruzione di un partito vero, dotato di un pensiero, di spazi di discussione e di confronto e, se del caso, di un’articolazione interna.
Mi limito ad osservare qui quanto ho personalmente detto a Fini a più riprese: il leader di An avrebbe dovuto già durante la legislatura 2001-2006, e a maggior ragione nei due anni del governo Prodi, spostare al centro il suo partito, provocando una scissione a destra ben più significativa di quella subita da Storace, e allearsi da posizioni laiche con Casini. Questo, tra l’altro, gli avrebbe consentito un lavoro di elaborazione politico-programmatica ben più consistente e significativo di quello fatto poi con Fare Futuro, la cui mancanza oggi Fini paga dando a larghi strati dell’opinione pubblica moderata la sensazione di muoversi solo per ragioni tattiche e di potere e gli costa la bollatura – certo ingenerosa, ma di cui deve tener conto – di “traditore”. Non aver fatto per tempo quel passaggio, subordinando ogni ragionamento politico all’idea di potersi conquistare il ruolo di successore di Berlusconi agendo per linee interne, lo ha poi costretto ad accettare il “predellino”, il Pdl padronale e l’egemonia politica sul governo della Lega.
Tuttavia, al punto in cui sono arrivate le cose, la voglia di rottura di Fini appare non solo comprensibile, ma anche sostanzialmente inevitabile. C’è solo un problema di mezzo: le eventuali elezioni anticipate. Berlusconi ci ha provato con tutte le sue forze lo scorso anno, e su questo giornale ho più insistito nel descrivere quel disegno sottaciuto ma neppure troppo nascosto. Non c’è riuscito, anche perché Fini ha cercato di non dargli modo di arrivarci quando si è accorto che andare al voto sarebbe stato un danno per tutti, a cominciare dal Paese, ma non per Berlusconi. Il risultato favorevole al premier delle regionali – seppure solo in termini relativi e non assoluti – lo conferma. E indica a Fini nuovamente il pericolo di un’eventualità del genere.
Nello stesso tempo, per Berlusconi continuare a evocare nemici, complotti e necessità di (ri)verifiche elettorali non può essere un gioco ripetibile all’infinito. Gli italiani sono stanchi, come si vede dall’aumento dell’astensionismo, e vorrebbero che si facessero le grandi riforme strutturali di cui si parla da anni, affrancando il Paese dal declino e dalla marginalizzazione, e anche il mitico Cavaliere (nel senso che prendere i voti è davvero una cosa che sa far bene) potrebbe trovarsi di colpo privo di quel consenso che finora l’ha sostenuto. Partita difficile, difficilissima. Per tutti.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.