Da Siria a Iran, i rischi del Medio Oriente
Una polveriera pronta a esplodere
Domani la fiaccolata a Roma, intanto il mondo arabo vive un periodo terribiledi Antonio Picasso - 02 novembre 2005
Data la situazione, è d’obbligo uno sguardo alla carta geografica. Inoltre, in concomitanza con la fiaccolata che si terrà domani, 3 novembre, di fronte all’ambasciata iraniana a Roma, per protestare contro le invettive anti-israeliane del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, è necessario assumere una posizione. Il Medio oriente sta precipitando in una crisi senza precedenti. E che l’Occidente, almeno, si renda conto dei rischi che sta correndo.
I recenti attentati delle brigate armate palestinesi e le conseguenti reazioni israeliane dimostrano che il processo di pace, innescato da Ariel Sharon con la politica del muro e della smobilitazione dei territori occupati, non è entrato ancora in funzione. L’intenzione di raggiungere un compromesso c’è, ma non è di tutti. E chi non vuole la pace, in Israele come in Palestina, riesce facilmente a mettersi in senso traverso.
Contemporaneamente, la Siria sta diventando oggetto di particolari attenzioni da parte delle Nazioni Unite. Con il rapporto Melhis – che dimostra la partecipazione dei servizi segreti siriani nell’attentato del 14 febbraio, in cui è morto l’ex premier libanese Rafiz Hariri – l’Onu ha accusato Damasco di concussione in omicidio. A pensarci bene, è una situazione senza precedenti nella storia del diritto internazionale. Dai nazisti a Saddam Hussein, passando per Slobodan Milosevič, tutte le dittature sono sempre state abbattute, prima con un intervento militare e, successivamente, sono apparse come imputati dinanzi a tribunali internazionali creati ad hoc. La Siria, invece – già indicato dagli Stati Uniti come centro nevralgico dell’Asse del male, perché fiancheggiatore il terrorismo internazionale e della guerriglia in Iraq – si trova invischiato in questa pesante imputazione. La vicinanza con il Libano, inoltre, permette di assecondare le accuse del Palazzo di vetro.
In Iraq, intanto, la situazione è divenuta più rarefatta e impalpabile. Di fronte ai tanti e forse robusti germogli di democrazia, cresciuti dall’inizio dell’anno a oggi – il popolo iracheno è stato chiamato più volte alle urne e ha sempre risposto con viva partecipazione – si contrappone la lotta armata alle truppe della coalizione, ritenute forze di occupazione. La guerra civile, allora, continua con la laconica modalità di attentati e vittime.
E poi si arriva alla danza di guerra iraniana. Paese da sempre considerato integralista e antioccidentale, l’Iran oggi è il secondo anello della catena dell’Asse del male, dopo la Siria e prima della Corea del Nord, e sta portando avanti un programma nucleare. Riarmo atomico, oppure ricerche per fini civili e industriale? Non si sa. Sta di fatto che le ultime esternazioni, del presidente iraniano, Ahmadinejad, contro l’esistenza di Israele, non hanno fatto altro che acutizzare dei rapporti già difficili da gestire, da parte di tutta la comunità internazionale.
A questo punto, il rischio di una dilatazione del conflitto in Iraq è dietro l’angolo. Perché troppi sono i focolai e troppo difficili da gestire per la diplomazia internazionale. D’altra parte, nessuno dei governi – di Washington, Gerusalemme, Damasco o Teheran – ha mai sotterrato l’ascia di guerra e rinunciato, a priori, al ricorso alle armi. Certo, la precauzione è tanta. Bush, in crisi di consensi in patria e con i duemila morti in Iraq (cifra da poco raggiunta) sulle spalle, ha già fatto sapere che nuovi interventi armati richiederebbero valutazioni più ponderate di quelle che hanno dato vita alla guerra in Iraq. E ci vuole poco. Le provocazioni e le istigazioni a combattere, però, non mancano.
E se altri interventi militari ci dovessero essere, o altri spargimenti di sangue, l’Islam diventerebbe uno solo fronte di guerra e guerriglia. Senza un epicentro e senza una linea di fronte. E senza, peraltro, due soli nemici opposti tra loro. I tanti regimi, i gruppi di combattenti, i diversi contingenti, ognuno con un obiettivo di guerra da perseguire, non permetterebbero la spartizione dicotomica degli schieramenti.
La democrazia più antica del mondo, gli Stati Uniti, quella che oggi appare l’avamposto dell’Occidente, Israele, uno Stato che Stato non è, la Palestina, un Paese con interni lavori in corso, il Libano, una dittatura laica, la Siria, un Paese in guerra, l’Iraq e una teocrazia, l’Iran. Un pericoloso affastellamento di regimi politici, profondamente differenti tra loro. Ai quali si aggiungono tutte le fazioni del terrorismo islamico attive in zona, da Al Qaeda a quelle palestinesi. Una sorta di tutti contro tutti, insomma, ed è sufficiente l’osservazione della cartina geografica per capire la gravità della situazione.
I recenti attentati delle brigate armate palestinesi e le conseguenti reazioni israeliane dimostrano che il processo di pace, innescato da Ariel Sharon con la politica del muro e della smobilitazione dei territori occupati, non è entrato ancora in funzione. L’intenzione di raggiungere un compromesso c’è, ma non è di tutti. E chi non vuole la pace, in Israele come in Palestina, riesce facilmente a mettersi in senso traverso.
Contemporaneamente, la Siria sta diventando oggetto di particolari attenzioni da parte delle Nazioni Unite. Con il rapporto Melhis – che dimostra la partecipazione dei servizi segreti siriani nell’attentato del 14 febbraio, in cui è morto l’ex premier libanese Rafiz Hariri – l’Onu ha accusato Damasco di concussione in omicidio. A pensarci bene, è una situazione senza precedenti nella storia del diritto internazionale. Dai nazisti a Saddam Hussein, passando per Slobodan Milosevič, tutte le dittature sono sempre state abbattute, prima con un intervento militare e, successivamente, sono apparse come imputati dinanzi a tribunali internazionali creati ad hoc. La Siria, invece – già indicato dagli Stati Uniti come centro nevralgico dell’Asse del male, perché fiancheggiatore il terrorismo internazionale e della guerriglia in Iraq – si trova invischiato in questa pesante imputazione. La vicinanza con il Libano, inoltre, permette di assecondare le accuse del Palazzo di vetro.
In Iraq, intanto, la situazione è divenuta più rarefatta e impalpabile. Di fronte ai tanti e forse robusti germogli di democrazia, cresciuti dall’inizio dell’anno a oggi – il popolo iracheno è stato chiamato più volte alle urne e ha sempre risposto con viva partecipazione – si contrappone la lotta armata alle truppe della coalizione, ritenute forze di occupazione. La guerra civile, allora, continua con la laconica modalità di attentati e vittime.
E poi si arriva alla danza di guerra iraniana. Paese da sempre considerato integralista e antioccidentale, l’Iran oggi è il secondo anello della catena dell’Asse del male, dopo la Siria e prima della Corea del Nord, e sta portando avanti un programma nucleare. Riarmo atomico, oppure ricerche per fini civili e industriale? Non si sa. Sta di fatto che le ultime esternazioni, del presidente iraniano, Ahmadinejad, contro l’esistenza di Israele, non hanno fatto altro che acutizzare dei rapporti già difficili da gestire, da parte di tutta la comunità internazionale.
A questo punto, il rischio di una dilatazione del conflitto in Iraq è dietro l’angolo. Perché troppi sono i focolai e troppo difficili da gestire per la diplomazia internazionale. D’altra parte, nessuno dei governi – di Washington, Gerusalemme, Damasco o Teheran – ha mai sotterrato l’ascia di guerra e rinunciato, a priori, al ricorso alle armi. Certo, la precauzione è tanta. Bush, in crisi di consensi in patria e con i duemila morti in Iraq (cifra da poco raggiunta) sulle spalle, ha già fatto sapere che nuovi interventi armati richiederebbero valutazioni più ponderate di quelle che hanno dato vita alla guerra in Iraq. E ci vuole poco. Le provocazioni e le istigazioni a combattere, però, non mancano.
E se altri interventi militari ci dovessero essere, o altri spargimenti di sangue, l’Islam diventerebbe uno solo fronte di guerra e guerriglia. Senza un epicentro e senza una linea di fronte. E senza, peraltro, due soli nemici opposti tra loro. I tanti regimi, i gruppi di combattenti, i diversi contingenti, ognuno con un obiettivo di guerra da perseguire, non permetterebbero la spartizione dicotomica degli schieramenti.
La democrazia più antica del mondo, gli Stati Uniti, quella che oggi appare l’avamposto dell’Occidente, Israele, uno Stato che Stato non è, la Palestina, un Paese con interni lavori in corso, il Libano, una dittatura laica, la Siria, un Paese in guerra, l’Iraq e una teocrazia, l’Iran. Un pericoloso affastellamento di regimi politici, profondamente differenti tra loro. Ai quali si aggiungono tutte le fazioni del terrorismo islamico attive in zona, da Al Qaeda a quelle palestinesi. Una sorta di tutti contro tutti, insomma, ed è sufficiente l’osservazione della cartina geografica per capire la gravità della situazione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.