L’“invasione gialla” a Wall Street
Una nuova Pearl Harbour?
I motivi alla base della colonizzazione nipponicadi Enrico Cisnetto - 28 settembre 2008
Qualcuno ha paragonato la crisi finanziaria americana a una “nuova Pearl Harbour”. In effetti, questa definizione ha una sua – involontaria – verità. E’ indubbio, infatti, che stiamo assistendo a una vera colonizzazione giapponese di Wall Street. Il 22 settembre, il più grande gruppo bancario nipponico, Mitsubishi Ufj Financial Group (Mufg) si è comprato il 20% di Morgan Stanley per 8,4 miliardi di dollari. In agosto, la stessa Mufg aveva rilevato il 35% della californiana Union BanCal per 3,5 miliardi di dollari. Nel frattempo Nomura, prima merchant bank del Sol Levante, ha acquisito le attività della fallita Lehman Brothers in Asia, Europa e Medioriente. E già a inizio 2008, il Sumitomo Mitzui Financial Group (Smfg) aveva investito oltre un miliardo di dollari nella Merrill Lynch.
E’ un caso che siano proprio i nipponici – e non, per esempio, i “soliti” fondi sovrani arabi e cinesi – ad aver fatto questo shopping forsennato, approfittando dei saldi? Non credo. Nonostante la situazione, è immaginabile che Washington abbia fatto le sue valutazioni strategiche. Dalla fine della seconda guerra mondiale, infatti, Stati Uniti e Giappone intrattengono ottime relazioni politiche e commerciali. I pericoli strategici per gli Usa, semmai, arrivano dalla Cina e dall’area saudita. Così, per ragioni di interesse nazionale, sono state bloccate, negli ultimi anni, operazioni clamorose come la fusione da 19 miliardi di dollari tra la società petrolifera cinese Cnooc e la californiana Unocal (2005), o l’acquisizione da parte della Dubai Ports dei porti marittimi più strategici degli Usa tra cui quello di New York (2006).
Ma non c’è solo la mancanza di mire egemoniche globali ad aver favorito il Giappone, ci sono almeno altri due motivi alla base di questa nuova “invasione gialla”. Da una parte, il fatto che nessuno è esperto di crisi più dei banchieri giapponesi. Il sistema creditizio nipponico è stato sottoposto negli ultimi anni a una profonda riforma da parte dell’ex premier Koizumi, e la lezione della crisi delle Tigri Asiatiche degli anni Novanta è stata imparata tanto bene che il Giappone è riuscito a uscire praticamente indenne dalla débâcle finanziario-immobiliare, con una esposizione molto vicina allo zero sul mercato del subprime americano. In secondo luogo – ma questa è solo una mia teoria – potrebbe esserci una ragione “culturale” alla base di questa opzione. Mi spiego meglio: fino agli anni Ottanta le grandi banche nipponiche erano derise per la loro visione “cucciana” del business.
Laddove Wall Street premiava individualismo e spregiudicatezza, con stipendi da capogiro e stock option a pioggia, Tokyo ha sempre apprezzato disciplina, rispetto delle regole, esperienza, lealtà all’azienda. E gli stipendi tendevano a essere calmierati, contando di più l’appartenenza e il buon nome che non il reddito individuale. Adesso però che i grandi broker di Wall Street si ritrovano per strada, che le banche d’affari Usa non esistono più, e che lo stesso paradigma del capitalismo americano è entrato in crisi, le cose cambiano. Soprattutto, nel momento in cui al contribuente americano è richiesto di ripagare i 750 miliardi di dollari di “danni” fatti da banchieri di “leggendaria avidità”(Dickens), un po’ di sana pratica zen potrebbe essere vista di buon occhio. In alternativa, del resto, rimane solo l’harakiri.
E’ un caso che siano proprio i nipponici – e non, per esempio, i “soliti” fondi sovrani arabi e cinesi – ad aver fatto questo shopping forsennato, approfittando dei saldi? Non credo. Nonostante la situazione, è immaginabile che Washington abbia fatto le sue valutazioni strategiche. Dalla fine della seconda guerra mondiale, infatti, Stati Uniti e Giappone intrattengono ottime relazioni politiche e commerciali. I pericoli strategici per gli Usa, semmai, arrivano dalla Cina e dall’area saudita. Così, per ragioni di interesse nazionale, sono state bloccate, negli ultimi anni, operazioni clamorose come la fusione da 19 miliardi di dollari tra la società petrolifera cinese Cnooc e la californiana Unocal (2005), o l’acquisizione da parte della Dubai Ports dei porti marittimi più strategici degli Usa tra cui quello di New York (2006).
Ma non c’è solo la mancanza di mire egemoniche globali ad aver favorito il Giappone, ci sono almeno altri due motivi alla base di questa nuova “invasione gialla”. Da una parte, il fatto che nessuno è esperto di crisi più dei banchieri giapponesi. Il sistema creditizio nipponico è stato sottoposto negli ultimi anni a una profonda riforma da parte dell’ex premier Koizumi, e la lezione della crisi delle Tigri Asiatiche degli anni Novanta è stata imparata tanto bene che il Giappone è riuscito a uscire praticamente indenne dalla débâcle finanziario-immobiliare, con una esposizione molto vicina allo zero sul mercato del subprime americano. In secondo luogo – ma questa è solo una mia teoria – potrebbe esserci una ragione “culturale” alla base di questa opzione. Mi spiego meglio: fino agli anni Ottanta le grandi banche nipponiche erano derise per la loro visione “cucciana” del business.
Laddove Wall Street premiava individualismo e spregiudicatezza, con stipendi da capogiro e stock option a pioggia, Tokyo ha sempre apprezzato disciplina, rispetto delle regole, esperienza, lealtà all’azienda. E gli stipendi tendevano a essere calmierati, contando di più l’appartenenza e il buon nome che non il reddito individuale. Adesso però che i grandi broker di Wall Street si ritrovano per strada, che le banche d’affari Usa non esistono più, e che lo stesso paradigma del capitalismo americano è entrato in crisi, le cose cambiano. Soprattutto, nel momento in cui al contribuente americano è richiesto di ripagare i 750 miliardi di dollari di “danni” fatti da banchieri di “leggendaria avidità”(Dickens), un po’ di sana pratica zen potrebbe essere vista di buon occhio. In alternativa, del resto, rimane solo l’harakiri.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.