Quando la politica diventa l’arte del compresso
Una Finanziaria versione “light”
Senza le riforme strutturali non si va da nessuna partedi Enrico Cisnetto - 09 dicembre 2009
La politica, si sa, è l’arte del compromesso. Così se il governo, per mano del ministro Tremonti, respinge i tentativi di raddoppiare lo stretto perimetro della Finanziaria e la manda al voto di fiducia in versione light, lo stesso governo – in questo caso nella persona del ministro Scajola – fa in modo che ciò che è uscito dalla porta possa rientrare dalla finestra, preparando un decreto di fine anno sugli incentivi.
Certo, il quadro che emerge dal ping-pong sulla manovra economica – molto più interno alla maggioranza e all’esecutivo di quanto non dica la protesta dell’opposizione, con relativo abbandono della Commissione Bilancio della Camera – è molto lontano dall’obiettivo che la riforma legislativa dello “strumento Finanziaria”, e la sua triennalizzazione, intendevano perseguire.
D’altra parte, pensare di superare la versione “mille commi” esclusivamente blindando la manovra e togliendo ogni funzione al Parlamento, commissioni e aula, sarebbe un po’ come convertire alla democrazia con i fucili. Nel caso specifico, poi, c’è tanto bisogno di evitare il deficit spending – perché la condizione dei nostri conti pubblici, già grave in sé e resa ancor peggio dalla caduta del pil (tra l’anno scorso e quest’anno alla fine saranno sei punti in meno), proprio non ce lo consente – quanto di rilanciare l’economia mettendo mano al portafoglio per grandi investimenti, e questa difficile ma non impossibile quadratura del cerchio richiede tutto meno che lo scontro tra i difensori dell’una come dell’altra esigenza.
Infatti, l’unico modo per spendere senza aumentare deficit e debito, anzi diminuendoli, è quello di fare le riforme strutturali – previdenza, sanità, assetti istituzionali, riduzione una tantum del debito e del suo costo per interessi passivi – di cui si parla da tempo immemorabile e che nessun governo, tanto dell’uno come dell’altro dei due poli del nostro fallimentare bipolarismo, ha fin qui avuto il coraggio e le capacità di realizzare.
Ma senza il “salto di qualità” che deriverebbe alla politica economica dalla trasformazione di quote importanti di spesa corrente improduttiva in investimenti produttivi, ecco che inevitabilmente torna il suk intorno alla Finanziaria, e la guerra tra i diversi “partiti della spesa”.
E questo mentre si scopre che per fronteggiare la crisi l’Europa ha speso 280 miliardi, destinati soprattutto alle banche ma anche per interventi pesanti a favore dell’industria e del terziario, mentre noi abbiamo stanziato soldi per i Tremonti bond che non sono stati utilizzati se non in un paio di casi, e non abbiamo badato a spese per la cassa integrazione. Per il rilancio dello sviluppo, zero.
Niente per infrastrutture immateriali – vedi il tira e molla sugli 800 milioni da stanziare per la banda larga – molto sulla carta e poco nella sostanza per quelle materiali. Nulla di specifico per i settori più votati all’export, che finora sono stati i nostri unici strumenti per competere a livello globale, briciole per spingere i consumi interni (che pure hanno tenuto meglio di altri variabili economiche).
In questo quadro, dunque, il fatto che si pensi ad un decreto per rinnovare gli incentivi alle auto ecologiche, e per suo tramite si voglia allargare gli incentivi anche ad altri prodotti ad alta efficienza energetica come gli elettrodomestici (tutti, non solo i frigoriferi) e le cucine (quelle che eliminano la formaldeide), o a settori ad alto tasso di occupazione e di export come le macchine utensili, non può che essere visto positivamente.
Anche perché i denari vanno ai consumatori, non alle imprese, e vengono erogati solo quando effettivamente scatta il consumo. Per questi sostegni Scajola ha annunciato un apposito decreto, i cui costi se anche dovessero ricadere nel bilancio 2010 sarebbero comunque da rendere compatibili con la finanza pubblica. Però, se il decreto fosse fatto bene, scegliendo i prodotti giusti, molti di questi denari tornerebbero allo Stato sotto altra forma (Iva, minore cassa integrazione, multe Ue evitate, ecc.) e con ciò rendendola una buona e non una cattiva spesa. Dopo la Finanziaria tremontiana, ben venga dunque il decreto Scajola. Sapendo però che senza le riforme strutturali non si va comunque lontano.
Certo, il quadro che emerge dal ping-pong sulla manovra economica – molto più interno alla maggioranza e all’esecutivo di quanto non dica la protesta dell’opposizione, con relativo abbandono della Commissione Bilancio della Camera – è molto lontano dall’obiettivo che la riforma legislativa dello “strumento Finanziaria”, e la sua triennalizzazione, intendevano perseguire.
D’altra parte, pensare di superare la versione “mille commi” esclusivamente blindando la manovra e togliendo ogni funzione al Parlamento, commissioni e aula, sarebbe un po’ come convertire alla democrazia con i fucili. Nel caso specifico, poi, c’è tanto bisogno di evitare il deficit spending – perché la condizione dei nostri conti pubblici, già grave in sé e resa ancor peggio dalla caduta del pil (tra l’anno scorso e quest’anno alla fine saranno sei punti in meno), proprio non ce lo consente – quanto di rilanciare l’economia mettendo mano al portafoglio per grandi investimenti, e questa difficile ma non impossibile quadratura del cerchio richiede tutto meno che lo scontro tra i difensori dell’una come dell’altra esigenza.
Infatti, l’unico modo per spendere senza aumentare deficit e debito, anzi diminuendoli, è quello di fare le riforme strutturali – previdenza, sanità, assetti istituzionali, riduzione una tantum del debito e del suo costo per interessi passivi – di cui si parla da tempo immemorabile e che nessun governo, tanto dell’uno come dell’altro dei due poli del nostro fallimentare bipolarismo, ha fin qui avuto il coraggio e le capacità di realizzare.
Ma senza il “salto di qualità” che deriverebbe alla politica economica dalla trasformazione di quote importanti di spesa corrente improduttiva in investimenti produttivi, ecco che inevitabilmente torna il suk intorno alla Finanziaria, e la guerra tra i diversi “partiti della spesa”.
E questo mentre si scopre che per fronteggiare la crisi l’Europa ha speso 280 miliardi, destinati soprattutto alle banche ma anche per interventi pesanti a favore dell’industria e del terziario, mentre noi abbiamo stanziato soldi per i Tremonti bond che non sono stati utilizzati se non in un paio di casi, e non abbiamo badato a spese per la cassa integrazione. Per il rilancio dello sviluppo, zero.
Niente per infrastrutture immateriali – vedi il tira e molla sugli 800 milioni da stanziare per la banda larga – molto sulla carta e poco nella sostanza per quelle materiali. Nulla di specifico per i settori più votati all’export, che finora sono stati i nostri unici strumenti per competere a livello globale, briciole per spingere i consumi interni (che pure hanno tenuto meglio di altri variabili economiche).
In questo quadro, dunque, il fatto che si pensi ad un decreto per rinnovare gli incentivi alle auto ecologiche, e per suo tramite si voglia allargare gli incentivi anche ad altri prodotti ad alta efficienza energetica come gli elettrodomestici (tutti, non solo i frigoriferi) e le cucine (quelle che eliminano la formaldeide), o a settori ad alto tasso di occupazione e di export come le macchine utensili, non può che essere visto positivamente.
Anche perché i denari vanno ai consumatori, non alle imprese, e vengono erogati solo quando effettivamente scatta il consumo. Per questi sostegni Scajola ha annunciato un apposito decreto, i cui costi se anche dovessero ricadere nel bilancio 2010 sarebbero comunque da rendere compatibili con la finanza pubblica. Però, se il decreto fosse fatto bene, scegliendo i prodotti giusti, molti di questi denari tornerebbero allo Stato sotto altra forma (Iva, minore cassa integrazione, multe Ue evitate, ecc.) e con ciò rendendola una buona e non una cattiva spesa. Dopo la Finanziaria tremontiana, ben venga dunque il decreto Scajola. Sapendo però che senza le riforme strutturali non si va comunque lontano.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.