È crollato il federalismo
Un Paese spaccato
Le alluvioni del Nord e i crolli di Pompei dimostrano il fallimento di questo sistema di governancedi Enrico Cisnetto - 15 novembre 2010
Altro che lo scontro Fini-Berlusconi e la crisi di governo incombente. Le nuove emergenze, l’alluvione in Veneto e il disastro di Pompei, stanno creando conseguenze politiche ben più profonde. Non solo perché ancora una volta si ripropone la frattura Nord-Sud che da troppo tempo avvelena l’Italia e rischia di mettere in crisi l’unità nazionale. Ma anche e soprattutto perché mostra con tutta evidenza, anche ai ciechi, il fallimento di quel sistema di governance che – impropriamente – abbiamo fin qui chiamato federalismo. Cosa di cui bisognerebbe tenere in massimo conto nel momento in cui ci si appresta ad entrare in una fase politica di transizione che ci dovrebbe portare alla Terza Repubblica.
Prendiamo le due emergenze, ed invece di usarle come strumento di sociologia – quasi sempre di terz’ordine – come ho visto fare dai media in questi giorni, guardiamone le responsabilità e incrociamo il tutto con la constatazione che o non ci sono o sono spese male le risorse per fronteggiarle. Partiamo dall’alluvione che ha coinvolto le province di Padova, Treviso, Verona e Vicenza. Si dirà: una delle tante. Vero, l’elenco è talmente lungo e gli episodi talmente ricorrenti che continuare a definirle “emergenze” è ipocrita. Le alluvioni e le altre forme di dissesto idrogeologico in Italia sono ormai ordinaria amministrazione.
Ogni volta si stanziano soldi per tamponare la situazione e riparare i danni – peraltro soldi insufficienti e che per di più spesso rimangono sulla carta – ma mai s’investe nella prevenzione (sì il verbo è giusto, non si tratta di spese ma di investimenti, non fosse altro perché quei soldi dovrebbero evitarne altri successivi). Ma a chi spetta la cura del territorio se non ai diversi gradi degli enti locali, elettivi e indiretti? In questi anni di Seconda Repubblica, dopo aver demonizzato il vecchio centralismo ci siamo illusi che il superamento della teorizzata dicotomia, o comunque del distacco, tra società civile, ceto politico e istituzioni, stesse nel progressivo decentramento dei poteri e dei capitoli di spesa pubblica.
Il tutto auspice la Lega, che su questo assioma – cattiva politica=centralismo romano, buona politica-consenso=federalismo-localismo – ha costruito il suo successo, e complice l’intero sistema politico che le è andata dietro, a cominciare da Berlusconi che dell’alleanza con Bossi ha fatto il suo benchmark e dal centro-sinistra che nel 2001 ha varato una sciagurata riforma del titolo V della Costituzione contenente demenziali devoluzioni di poteri. Risultato: da un lato sono aumentati i costi della macchina politico-amministrativa e dei servizi erogati (nel migliore dei casi a parità di quantità e qualità di essi), così come si è moltiplicato il contenzioso tra centro e periferia e si sono diffusi in modo abnorme i diritti di veto anche su questioni, in primis le infrastrutture, di valenza nazionale o addirittura internazionale (per esempio, il corridoio 5); dall’altro, è cresciuta a dismisura la dimensione della corruzione e del clientelismo, così come il numero dei disastri (prevalentemente per incuria del territorio).
Nel rimpallo delle responsabilità, si è dato vita in modo ormai permanente al balletto che vede gli amministratori locali denunciare la mancanza di fondi – salvo poi dare fondo alla fantasia e alla sfacciataggine nell’inventarsi i modi più diversi di spenderne malamente una quantità imbarazzante – e il governo provvedere con tagli lineari che non toccano l’origine delle perversioni della spesa pubblica e puniscono i meritevoli. In più, sul terreno della cattiva amministrazione e del non-governo si sono sommati due vizi: quello dei politici e degli amministratori sul territorio, che fanno leva sulla demagogia spicciola e i miopi interessi di bottega nel rapporto con gli elettori – figlio di questa cultura del consenso populista è il fiorire di mille localismi, da quello universitario a quello aeroportuale passando per quello turistico – e quello dei politici nazionali e degli uomini di governo che nel federalismo hanno trovato un modo comodo di scaricare altrove le responsabilità. Salvo poi, di fronte ai disastri causati da questo perverso sistema di collettiva deresponsabilizzazione, inventarsi dei livelli di superiore accentramento privi di qualsiasi controllo (l’esempio più significativo è quello della Protezione Civile).
Il caso Pompei è diverso nella dinamica – la caduta di un pezzo a causa di cattivo o mancato restauro è solo la punta di un iceberg fatto di una clamorosa cattiva gestione di un bene unico su cui era dovere e interesse del territorio e del Paese erigere un redditizio business, unica garanzia di un efficace cura degli interessi culturali – ma non nelle cause remote, dovute ad una governance sbagliata che produce burocrazia e inefficienza.
Allora, forse sarà il caso di trarre da queste due vicende le dovute conseguenze. Certo, non ci sarebbe bisogno di attendere questi “casi”, basterebbe avere il coraggio di trarre insegnamento dal fallimento del trasferimento alle Regioni del sistema sanitario, che ha creato clamorosi casi di default (e non solo al Sud), o indagare sul perché le Regioni italiane hanno speso solo 3,7 miliardi dei 29 di fondi strutturali Ue disponibili per il programma regionale sulla coesione o perché stanno rischiando di buttar via (tempo massimo, fine anno) 342 milioni sempre comunitari per l’agricoltura.
Ma visto che ci si culla nell’illusione che la risposta a queste degenerazioni che sono ormai sotto gli occhi di tutti – e su cui ormai anche la classe dirigente locale della Lega si gioca la pelle, visto che sul territorio è “di governo” e non più “di lotta” – sia il federalismo fiscale, sarà bene cominciare a dire con chiarezza che così non si può più andare avanti e che la “grande riforma” voluta dal Nord immaginando di potersi liberare delle zavorre meridionali non smuoverà di un millimetro i problemi. Diciamoci la verità: il federalismo fiscale per risultare efficace ha da essere “egoista” – ma allora fa saltare l’unità nazionale, visto che la linea di frattura è già ben marcata – o altrimenti lascia le cose come stanno. Si dice: ma introduce il criterio dei costi standard.
Vero, ma c’era bisogno della “grande riforma” per stabilire che un posto letto in ospedale costa tot e così deve essere a Bolzano come a Trapani, e che chi sgarra paga? No, l’Italia ha bisogno di ripensare il suo assetto politico-amministrativo, riportando molte competenze e responsabilità al centro per unificarle e asciugando il pletorico assetto del decentramento (abolizione delle Province, riduzione a metà del numero dei Comuni, aggregazione delle Regioni più piccole a quelle più grandi, ecc.).
E la Terza Repubblica o nasce anche su questi presupposti, o è destinata ad abortire o a fallire in modo persino peggiore di quanto stia facendo la Seconda. Piaccia o non piaccia alla Lega.
Prendiamo le due emergenze, ed invece di usarle come strumento di sociologia – quasi sempre di terz’ordine – come ho visto fare dai media in questi giorni, guardiamone le responsabilità e incrociamo il tutto con la constatazione che o non ci sono o sono spese male le risorse per fronteggiarle. Partiamo dall’alluvione che ha coinvolto le province di Padova, Treviso, Verona e Vicenza. Si dirà: una delle tante. Vero, l’elenco è talmente lungo e gli episodi talmente ricorrenti che continuare a definirle “emergenze” è ipocrita. Le alluvioni e le altre forme di dissesto idrogeologico in Italia sono ormai ordinaria amministrazione.
Ogni volta si stanziano soldi per tamponare la situazione e riparare i danni – peraltro soldi insufficienti e che per di più spesso rimangono sulla carta – ma mai s’investe nella prevenzione (sì il verbo è giusto, non si tratta di spese ma di investimenti, non fosse altro perché quei soldi dovrebbero evitarne altri successivi). Ma a chi spetta la cura del territorio se non ai diversi gradi degli enti locali, elettivi e indiretti? In questi anni di Seconda Repubblica, dopo aver demonizzato il vecchio centralismo ci siamo illusi che il superamento della teorizzata dicotomia, o comunque del distacco, tra società civile, ceto politico e istituzioni, stesse nel progressivo decentramento dei poteri e dei capitoli di spesa pubblica.
Il tutto auspice la Lega, che su questo assioma – cattiva politica=centralismo romano, buona politica-consenso=federalismo-localismo – ha costruito il suo successo, e complice l’intero sistema politico che le è andata dietro, a cominciare da Berlusconi che dell’alleanza con Bossi ha fatto il suo benchmark e dal centro-sinistra che nel 2001 ha varato una sciagurata riforma del titolo V della Costituzione contenente demenziali devoluzioni di poteri. Risultato: da un lato sono aumentati i costi della macchina politico-amministrativa e dei servizi erogati (nel migliore dei casi a parità di quantità e qualità di essi), così come si è moltiplicato il contenzioso tra centro e periferia e si sono diffusi in modo abnorme i diritti di veto anche su questioni, in primis le infrastrutture, di valenza nazionale o addirittura internazionale (per esempio, il corridoio 5); dall’altro, è cresciuta a dismisura la dimensione della corruzione e del clientelismo, così come il numero dei disastri (prevalentemente per incuria del territorio).
Nel rimpallo delle responsabilità, si è dato vita in modo ormai permanente al balletto che vede gli amministratori locali denunciare la mancanza di fondi – salvo poi dare fondo alla fantasia e alla sfacciataggine nell’inventarsi i modi più diversi di spenderne malamente una quantità imbarazzante – e il governo provvedere con tagli lineari che non toccano l’origine delle perversioni della spesa pubblica e puniscono i meritevoli. In più, sul terreno della cattiva amministrazione e del non-governo si sono sommati due vizi: quello dei politici e degli amministratori sul territorio, che fanno leva sulla demagogia spicciola e i miopi interessi di bottega nel rapporto con gli elettori – figlio di questa cultura del consenso populista è il fiorire di mille localismi, da quello universitario a quello aeroportuale passando per quello turistico – e quello dei politici nazionali e degli uomini di governo che nel federalismo hanno trovato un modo comodo di scaricare altrove le responsabilità. Salvo poi, di fronte ai disastri causati da questo perverso sistema di collettiva deresponsabilizzazione, inventarsi dei livelli di superiore accentramento privi di qualsiasi controllo (l’esempio più significativo è quello della Protezione Civile).
Il caso Pompei è diverso nella dinamica – la caduta di un pezzo a causa di cattivo o mancato restauro è solo la punta di un iceberg fatto di una clamorosa cattiva gestione di un bene unico su cui era dovere e interesse del territorio e del Paese erigere un redditizio business, unica garanzia di un efficace cura degli interessi culturali – ma non nelle cause remote, dovute ad una governance sbagliata che produce burocrazia e inefficienza.
Allora, forse sarà il caso di trarre da queste due vicende le dovute conseguenze. Certo, non ci sarebbe bisogno di attendere questi “casi”, basterebbe avere il coraggio di trarre insegnamento dal fallimento del trasferimento alle Regioni del sistema sanitario, che ha creato clamorosi casi di default (e non solo al Sud), o indagare sul perché le Regioni italiane hanno speso solo 3,7 miliardi dei 29 di fondi strutturali Ue disponibili per il programma regionale sulla coesione o perché stanno rischiando di buttar via (tempo massimo, fine anno) 342 milioni sempre comunitari per l’agricoltura.
Ma visto che ci si culla nell’illusione che la risposta a queste degenerazioni che sono ormai sotto gli occhi di tutti – e su cui ormai anche la classe dirigente locale della Lega si gioca la pelle, visto che sul territorio è “di governo” e non più “di lotta” – sia il federalismo fiscale, sarà bene cominciare a dire con chiarezza che così non si può più andare avanti e che la “grande riforma” voluta dal Nord immaginando di potersi liberare delle zavorre meridionali non smuoverà di un millimetro i problemi. Diciamoci la verità: il federalismo fiscale per risultare efficace ha da essere “egoista” – ma allora fa saltare l’unità nazionale, visto che la linea di frattura è già ben marcata – o altrimenti lascia le cose come stanno. Si dice: ma introduce il criterio dei costi standard.
Vero, ma c’era bisogno della “grande riforma” per stabilire che un posto letto in ospedale costa tot e così deve essere a Bolzano come a Trapani, e che chi sgarra paga? No, l’Italia ha bisogno di ripensare il suo assetto politico-amministrativo, riportando molte competenze e responsabilità al centro per unificarle e asciugando il pletorico assetto del decentramento (abolizione delle Province, riduzione a metà del numero dei Comuni, aggregazione delle Regioni più piccole a quelle più grandi, ecc.).
E la Terza Repubblica o nasce anche su questi presupposti, o è destinata ad abortire o a fallire in modo persino peggiore di quanto stia facendo la Seconda. Piaccia o non piaccia alla Lega.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.