Politica e istituzioni hanno smarrito il senso della realtà
Un paese allo sbaraglio
Le gravi conseguenze dell'arretratezza e della rigidità del sistema produttivo italianodi Davide Giacalone - 06 aprile 2010
L’Italia politica e istituzionale ha pericolosamente smarrito il senso della realtà, come, proprio in questi giorni, si dimostra circa il delicato tema del lavoro e della tutela dei lavoratori. Non parlo di questo o quell’esponente, è l’insieme del dibattito politico che si concentra su cose che non esistono più, tralasciando le questioni che, invece, si riflettono sulla vita di tutti.
Il Fondo Monetario Internazionale, tanto per citare l’ultimo dato disponibile, segnala quel che da tempo ripetiamo: la ripresa c’è, ma l’Italia ne approfitterà meno delle altre economie avanzate, fra le quali, di già, ne profittano meno i Paesi dell’euro. Cresciamo al rallentatore, quando la ripresa internazionale ci trascina, impoverendoci rispetto agli altri. Le cause sono molteplici, ma la loro matrice è una: l’arretratezza e la rigidità del mercato interno, dei capitali come del lavoro. Detto in modo diverso: l’influenza delle scelte collettive, della politica, sul sistema produttivo.
Dovremmo prendere il coraggio a due mani, rinunciare a molte false (e sottolineo false) protezioni e lanciarci all’inseguimento dei più dinamici. Abbiamo lavoratori e imprenditori capaci di miracoli, ma li teniamo legati e spargiamo la pece sotto i loro piedi. Così ci attardiamo in discussioni prive di senso, che sono solo bandiere di un mondo politico che non riesce neanche a morire. Tale è l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, tale la sua difesa, tale la discussine apertasi sul possibile arbitrato in caso di licenziamento.
Quando la maggioranza inserì quel concetto, che prevede la possibilità, su base volontaria e precedentemente stabilita nel contratto individuale, di rivolgersi ad un arbitro, anziché al tribunale, nelle cause del lavoro, e segnatamente in caso di licenziamento, scrissi che era una piccola cosa. Giusta, ma troppo leggera. Un brodino tiepido, una camomilla trasparente. Questo perché il mercato economico e quello del lavoro si sono già adattati a scantonare le norme ideologiche, come l’articolo 18, che impedisce il licenziamento se non per giusta causa, e i lavoratori falsamente autonomi sono cresciuti a dismisura. Sono le false partite iva, i falsi consulenti, che figurano come esterni laddove, se ci fosse una legislazione meno inutilmente ostile, sarebbero assunti dentro le aziende. Così come, del resto, quelle norme sbagliate tendono a promuovere il nanismo industriale, esonerando da obblighi insensati le imprese piccole, che, difatti, sono la quasi totalità delle nostre. Tutti esempi, chiari e tangibili, di tutele sbagliate che si ritorcono contro i presunti tutelati.
Anche il brodino, però, è risultato indigesto a intestini che marciano ad ideologia, che sconoscono la realtà. Il Presidente della Repubblica ha rinviato il provvedimento al Parlamento, con motivazioni che entrano nel merito e che, quindi, contribuiscono al deragliamento istituzionale. Per carità, non è difficile sostenere che la forma può anche dargli ragione, ma se si mette a respingere tutte le leggi che normano materie eterogenee e mancano di specificità nelle deleghe, può anche riporre la penna e non firmare più niente, compresi i provvedimenti dei governi dei quali faceva parte.
I giuristi del Quirinale, insomma, cresciuti all’idea che opporsi sia meritorio, non hanno compreso su quale terreno hanno messo il piede, insabbiando ulteriormente il delicato e non stabile equilibrio costituzionale. Sul tema, però, soccorrono i furbi e gli acuti, sottolineando che si tratta di un passaggio positivo, giacché mette la firma, e la non firma, sulla bilancia del dare e dell’avere complessivo, lasciando ben sperare per il futuro. L’unica speranza e che simili zappatori costituzionali non abbiano a completare il loro lavoro, semmai.
Torniamo al merito, che è più importante. Ostacolando l’arbitrato si tutela il lavoratore? Risponde sì chi ritiene, come le motivazioni quirinalizie lasciando intendere, che il ricorso alla giustizia offra maggiori protezioni. Alla faccia: un anno e otto mesi, in media, per il primo grado; quattro anni e sei mesi per agguantare il secondo; sette anni e cinque mesi per sapere come va a finire. Sapete cosa significa? Che a causa della giustizia incivile i deboli soccombono assai prima e che, quindi, il modo migliore per tutelarli e smantellare questa presa in giro. L’esatto contrario, insomma, di quel che si sostiene. Ecco perché dico che politica e istituzioni navigano in rotta d’allontanamento dalla realtà, perché giocano con carte tutte loro, immaginarie.
Ho letto quel che dice Dario Franceschini: “non c’è differenza tra un artigiano che fallisce e un precario che perde il lavoro”. Giusto, poteva dirlo prima, lo dica al Quirinale. Sostiene anche che si deve chiedere ai genitori di lavorare più a lungo, per non appesantire gli oneri dei figli. Giusto, ma è l’esatto contrario di quel che loro fecero cancellando lo scalone e mettendone il prezzo sulle spalle dei precari. Leggo, insomma, e resto allibito: possibile che, nella nostra politica, si debba essere travolti e sconfitti per trovare il coraggio di dire cose ovvie? E’ possibile, purtroppo, con l’aggravante che se le rimangerà, se solo gli capitasse di tornare a contare qualche cosa.
Pubblicato da Libero
Il Fondo Monetario Internazionale, tanto per citare l’ultimo dato disponibile, segnala quel che da tempo ripetiamo: la ripresa c’è, ma l’Italia ne approfitterà meno delle altre economie avanzate, fra le quali, di già, ne profittano meno i Paesi dell’euro. Cresciamo al rallentatore, quando la ripresa internazionale ci trascina, impoverendoci rispetto agli altri. Le cause sono molteplici, ma la loro matrice è una: l’arretratezza e la rigidità del mercato interno, dei capitali come del lavoro. Detto in modo diverso: l’influenza delle scelte collettive, della politica, sul sistema produttivo.
Dovremmo prendere il coraggio a due mani, rinunciare a molte false (e sottolineo false) protezioni e lanciarci all’inseguimento dei più dinamici. Abbiamo lavoratori e imprenditori capaci di miracoli, ma li teniamo legati e spargiamo la pece sotto i loro piedi. Così ci attardiamo in discussioni prive di senso, che sono solo bandiere di un mondo politico che non riesce neanche a morire. Tale è l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, tale la sua difesa, tale la discussine apertasi sul possibile arbitrato in caso di licenziamento.
Quando la maggioranza inserì quel concetto, che prevede la possibilità, su base volontaria e precedentemente stabilita nel contratto individuale, di rivolgersi ad un arbitro, anziché al tribunale, nelle cause del lavoro, e segnatamente in caso di licenziamento, scrissi che era una piccola cosa. Giusta, ma troppo leggera. Un brodino tiepido, una camomilla trasparente. Questo perché il mercato economico e quello del lavoro si sono già adattati a scantonare le norme ideologiche, come l’articolo 18, che impedisce il licenziamento se non per giusta causa, e i lavoratori falsamente autonomi sono cresciuti a dismisura. Sono le false partite iva, i falsi consulenti, che figurano come esterni laddove, se ci fosse una legislazione meno inutilmente ostile, sarebbero assunti dentro le aziende. Così come, del resto, quelle norme sbagliate tendono a promuovere il nanismo industriale, esonerando da obblighi insensati le imprese piccole, che, difatti, sono la quasi totalità delle nostre. Tutti esempi, chiari e tangibili, di tutele sbagliate che si ritorcono contro i presunti tutelati.
Anche il brodino, però, è risultato indigesto a intestini che marciano ad ideologia, che sconoscono la realtà. Il Presidente della Repubblica ha rinviato il provvedimento al Parlamento, con motivazioni che entrano nel merito e che, quindi, contribuiscono al deragliamento istituzionale. Per carità, non è difficile sostenere che la forma può anche dargli ragione, ma se si mette a respingere tutte le leggi che normano materie eterogenee e mancano di specificità nelle deleghe, può anche riporre la penna e non firmare più niente, compresi i provvedimenti dei governi dei quali faceva parte.
I giuristi del Quirinale, insomma, cresciuti all’idea che opporsi sia meritorio, non hanno compreso su quale terreno hanno messo il piede, insabbiando ulteriormente il delicato e non stabile equilibrio costituzionale. Sul tema, però, soccorrono i furbi e gli acuti, sottolineando che si tratta di un passaggio positivo, giacché mette la firma, e la non firma, sulla bilancia del dare e dell’avere complessivo, lasciando ben sperare per il futuro. L’unica speranza e che simili zappatori costituzionali non abbiano a completare il loro lavoro, semmai.
Torniamo al merito, che è più importante. Ostacolando l’arbitrato si tutela il lavoratore? Risponde sì chi ritiene, come le motivazioni quirinalizie lasciando intendere, che il ricorso alla giustizia offra maggiori protezioni. Alla faccia: un anno e otto mesi, in media, per il primo grado; quattro anni e sei mesi per agguantare il secondo; sette anni e cinque mesi per sapere come va a finire. Sapete cosa significa? Che a causa della giustizia incivile i deboli soccombono assai prima e che, quindi, il modo migliore per tutelarli e smantellare questa presa in giro. L’esatto contrario, insomma, di quel che si sostiene. Ecco perché dico che politica e istituzioni navigano in rotta d’allontanamento dalla realtà, perché giocano con carte tutte loro, immaginarie.
Ho letto quel che dice Dario Franceschini: “non c’è differenza tra un artigiano che fallisce e un precario che perde il lavoro”. Giusto, poteva dirlo prima, lo dica al Quirinale. Sostiene anche che si deve chiedere ai genitori di lavorare più a lungo, per non appesantire gli oneri dei figli. Giusto, ma è l’esatto contrario di quel che loro fecero cancellando lo scalone e mettendone il prezzo sulle spalle dei precari. Leggo, insomma, e resto allibito: possibile che, nella nostra politica, si debba essere travolti e sconfitti per trovare il coraggio di dire cose ovvie? E’ possibile, purtroppo, con l’aggravante che se le rimangerà, se solo gli capitasse di tornare a contare qualche cosa.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.