Immigrazione: fuori dai luoghi comuni
Un mondo di migranti
L’Europa manca di manodopera: urge una politica selettiva che favorisca l’integrazionedi Donato Speroni - 05 marzo 2007
Qual è il quinto Paese del mondo per popolazione, dopo Cina, India, Stati Uniti e Indonesia? Il Brasile, rispondono i ben informati. Ma c’è un altro “popolo” che, avvicinandosi ormai ai 200 milioni di anime, supera i 184 milioni del Brasile (dati 2005) e sembra destinato a crescere fortemente nei prossimi anni. E’ il popolo dei migranti, della gente che vive lontana dal proprio Paese per sfuggire a guerre o carestie, per cercare migliori opportunità di vita o di lavoro o anche per arricchire la propria formazione intellettuale e far poi ritorno in patria.
In cinque anni, dal 2000 al 2005, il numero dei migranti è aumentato di 15 milioni di unità. La crescita recente è dovuta soprattutto alla ricerca di condizioni di vita migliori, piuttosto che ad eventi politici (che pure incidono) e sta avendo conseguenze di grande impatto. Gli effetti economici sono in larga misura positivi, perché le migrazioni danno un contributo fondamentale all’economia dei paesi ricchi, affetti da un grave invecchiamento demografico, e al tempo stesso con i trasferimenti di denaro ai Paesi d’origine contribuiscono a garantire la sopravvivenza di intere regioni. Sul piano sociale però aprono problemi non facili, di assimilazione e multiculturalità. In molti casi le popolazioni dei Paesi industrializzati stentano a riconoscere di aver bisogno dell’immigrazione e tendono a politiche estreme ed ideologizzate (dal rifiuto totale all’apertura indiscriminata) anziché gestirla al meglio per favorire il proprio sviluppo.
Il quadro statistico complessivo è tenuto dall’Organizzazione internazionale per le Migrazione (Iom è la sigla inglese usata correntemente), un’Agenzia nata cinquant’anni fa nell’ambito dell’Onu per occuparsi dei movimenti di popolazione provocati in Europa dalla seconda guerra mondiale ed evolutasi poi in una struttura globale che si è occupata dei boat people, del Kosovo, dello tsunami e tende a essere sempre più il governing body delle politiche relative ai grandi spostamenti. Gli interventi di aiuto alle persone in fuga da guerre e persecuzioni politiche sono però gestiti dall’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e dall’UNRWA, l’Agenzia dell’Onu che dal 1949 si occupa dei profughi palestinesi nei Paesi del Medio Oriente. Il numero dei rifugiati affidati alle cure dell’UNHCR è aumentato da 2 milioni nel 1975 fino a una punta di 16 milioni nel 1990, per poi scendere, soprattutto grazie al parziale miglioramento della situazione africana, a 8,4 milioni di persone nel 2005. A questo quadro vanno però aggiunti i 4,3 milioni di palestinesi registrati sotto la gestione UNRWA e ben 6,6 milioni di internally displaced persons (Idp), cioè persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case per cause di guerra o persecuzione ma che continuano a vivere all’interno dello stesso Paese. Va anzi detto che il numero delle Idp è in crescita: si stima che nel 2004 fossero tra i 20 e i 25 milioni di persone, con le più alte concentrazioni in Sudan, Angola, Colombia, Liberia, Sri Lanka, Bosnia Erzegovina e in alcuni Paesi dell’ex Unione sovietica.
Nel panorama dei migranti, i rifugiati occupano però una posizione che, se dirlo non apparisse cinico, si potrebbe definire privilegiata. Hanno infatti diritto a visti d’ingresso in molti Paesi dove altrimenti non riuscirebbero a entrare, mentre altrettanto drammatica, ma meno protetta, è la situazione di chi fugge da carestia e miseria, situazioni che non danno diritto allo status di rifugiato. E’ tra questi in particolare che si annoverano i migranti irregolari: l’Onu stima che siano ormai nel mondo tra i 30 e i 40 milioni le persone che vivono in un Paese senza alcun permesso e quindi anche senza alcuna tutela giuridica.
L’emigrazione, però, non è fatta solo di miseria e di dolore. Si calcola per esempio che circa 400mila scienziati e tecnici dei paesi in via di sviluppo, cioè tra il 30 e il 50 per cento del totale, siano impegnati nei paesi industrializzati. Questo brain drain, la fuga dei cervelli, quanto è grave per il Paese d’origine? Non c’è dubbio che talvolta le situazioni diventano ingestibili: i laureati dei Paesi centroamericani si trasferiscono negli Stati Uniti in una percentuale che varia dal 25 al 40%, con una punta clamorosa in Giamaica, i cui laureati stanno per l’80% negli Usa. E ci sono più medici etiopici a Chicago di quanti non pratichino in Etiopia. Però, soprattutto dopo il Gats, l’Accordo generale sullo scambio di servizi che è entrato in vigore dal 2000, l’interazione delle esperienze tra Paesi di destinazione e Paesi d’origine è divenuto più frequente, tanto che oggi alcuni studiosi non parlano più di brain drain, quanto di brain gain (vedere riquadro).
Quali sono i movimenti di popolazione più significativi in questa fase storica? Ecco un quadro aggiornato, tratto soprattutto dai documenti della Iom.
AFRICA E MEDIO ORIENTE
In futuro gran parte dell’emigrazione africana proverrà dalle aree subsahariane. La caduta del tasso di fertilità in Algeria, Marocco e Tunisia negli ultimi 25 anni è stato pari a quello riscontrato in Francia nell’arco di due secoli e attualmente la Tunisia è già allineata al livello di 1,55 figli per donna, più o meno come i Paesi occidentali. Si prevede pertanto che dopo il 2010 il flusso migratorio dal Maghreb calerà fortemente.
Nel complesso, però, la mobilità della popolazione africana è la più elevata del mondo: non solo verso l’Europa, gli Stati Uniti, i Paesi del Golfo, ma anche tra i diversi Paesi del continente nero. E aumenterà in futuro. Poche cifre bastano per dare il senso del problema. Oggi l’Africa ha una popolazione di 680 milioni di persone, di cui quasi il 50 per cento vive al disotto della soglia di povertà. Al confronto, i 25 membri dell’Unione europea hanno una popolazione quasi uguale: 630 milioni. Ma i demografi prevedono che nel 2050 la popolazione europea complessiva sarà più o meno uguale all’attuale. Nello stesso tempo la popolazione africana triplicherà e si collocherà tra 1,6 e 1,8 milioni: un fiume di persone lascerà si metterà in moto per cercare condizioni migliori.
L’emigrazione africana è diretta verso l’Europa, gli Stati Uniti, i Paesi del Golfo, ma ha anche una forte componente intraregionale. Si calcola infatti che i migranti che vivono in un Paese africano diverso da quello d’origine siano oggi circa 16 milioni, con una differenza importante rispetto al passato: diminuisce costantemente il numero dei rifugiati e cresce invece quello dei migranti per ragioni economiche, che erano solo due milioni nel 1990 e avevano raggiunto quota 12,7 milioni nel 2000. In parte gli spostamenti sono dovuti alle carestie che rendono inabitabili intere zone, ma molto incide la scoperta e la ricerca di nuovi modelli di comportamento diversi dalla tradizionale vita di villaggio. Ed infatti alle migrazioni dall’uno all’altro Stato vanno aggiunti gli spostamenti interni a ciascun Paese, che sono difficilmente valutabili ma che sono ingenti. Il tasso di urbanizzazione della popolazione africana è del 3,5 per cento all’anno, il più alto del mondo, tanto che si calcola che nel 2030 il 54 per cento delle popolazione africana vivrà in metropoli enormi e ingestibili, che offriranno scarse possibilità di lavoro. Prima che una politica di forte promozione dello sviluppo nelle zone rurali possa correggere questa tendenza è prevedibile che il movimento verso le città africane e dalle città ad altri continenti interesserà decine di milioni di persone.
Da notare che nei movimenti migratori africani è fortemente in crescita la componente femminile, passata dal 42 per cento del totale dei migranti negli anni ’60 all’attuale 47. Con una forte differenza qualitativa: mentre in passato le donne si muovevano soprattutto per seguire il capo famiglia, ora emigrano da sole, alla ricerca di opportunità di lavoro come collaboratrici domestiche, badanti o anche in lavori più qualificati. In Gran Bretagna nel 2001 erano registrate 382 infermiere dello Zimbabwe, pari alla capacità formativa di quel Paese in oltre tre anni.
Anche il Medio oriente è un’altra area di forti migrazioni. In parte per i problemi storici della regione, dal dramma palestinese originato dalla guerra del 1948 alla diaspora irachena (un fenomeno quest’ultimo cominciato vent’anni fa, ai tempi della guerra con l’Iran), che complessivamente portano il conteggio a circa cinque milioni di rifugiati. In parte per la forte attrazione dei paesi petroliferi, che ospitano circa 14 milioni di lavoratori stranieri. Nell’insieme dei sei paesi del Golfo persico gli stranieri costituiscono il 35 per cento della popolazione e addirittura il 70 per cento della forza lavoro, con punte oltre l’80 in Quatar, Kuwait e negli Emirati.
Nella regione si è anche radicata una cospicua popolazione di apolidi detti Bidun dal termine arabo “bidun jinsiya”, che significa “senza nazionalità”. I Bidun sono presenti ormai da molti anni in numerosi Paesi, ma con diritti fortemente ridotti sia per la sicurezza sociale, sia nell’acquisto di beni immobili.
AMERICA
Ci sono molte incertezze nel conteggio dei migranti nel Nuovo Continente, ma stime attendibili fanno ammontare a circa 20 milioni gli attuali emigrati dall’America latina e dai Paesi caraibici. Fino agli anni ‘70 non era così: America latina e Caraibi attraevano immigranti, soprattutto da Spagna, Italia, Portogallo e Giappone. Le difficoltà economiche in Argentina e Venezuela, ma anche in altri Paesi, hanno rovesciato questo trend tanto che per cinque anni, dal 1995 al 2000, la percentuale di emigranti da America Latina e Caraibi sul totale della popolazione è stata più alta di quella di tutte le altre regioni del mondo.
I grandi magneti di questi movimenti sono Stati Uniti e Canada. Nel 2000 il Census americano ha verificato che negli Usa c’erano 28,4 milioni di abitanti nati all’estero, di cui circa la metà proveniente dall’America latina. Una stima Onu fa ascendere gli immigrati negli Usa, compresi gli irregolari, a 35 milioni di persone. La politica nella concessione dei visti sta diventando fortemente restrittiva negli ultimi anni, in parte come reazione agli eventi dell’11 settembre 2001. E’ indicativo di questa tendenza che il numero dei visti per asilo politico concessi dal governo di Washington è diminuito da 68.426 nel 2001 a 28.455 nel 2003. Il governo di Washington deve però affrontare l’altro grave problema migratorio: la grande massa di irregolari che già vive nel Paese e che continua ad arrivare soprattutto attraverso la frontiera messicana: una situazione molto difficile da gestire perché questa grande massa di irregolari (circa 500mila unità all’anno) è soggetta a ogni forma di vessazione e che difficilmente potrà essere risolta attraverso la costruzione di barriere sul confine. Il numero degli irregolari è talmente consistente da renderne importante l’apporto economico e da dare loro anche forza politica, come si è visto in recenti manifestazioni.
Anche il Canada, che un tempo era terra di emigrazione qualificata, ha subito l’impatto dei nuovi migranti. Tra il 1961 e il 2001, la popolazione latinoamericana e caraibica in Canada è cresciuta di 45 volte, da 12.900 a 585.800 unità, mentre la popolazione di origine europea è aumentata da 809.330 a 1.478.230 unità. Si tratta in entrambi i casi di un’immigrazione per ragioni di lavoro, fortemente polarizzata tra una parte con un elevato livello d’istruzione e un’altra semianalfabeta. Questa situazione ha aperto nella società canadese un grande dibattito sulla gestione dell’immigrazione e sul suo apporto allo sviluppo economico.
Le migrazioni interamericane non sono comunque dirette soltanto verso i due grandi Paesi del Nord: situazione di incertezza economica o tensioni politiche hanno messo in moto movimenti consistenti anche tra i Paesi dell’America latina. La complessità di questi movimenti è dimostrata dal caso dell’Ecuador: in cinque anni, dal 1997 al 2002, 550mila ecuadoregni, pari a un quinto della forza lavoro, ha lasciato il Paese, per essere però in larga misura sostituiti al Nord da popolazioni in fuga dalla Columbia e al Sud da migranti dal Perù. E l’Argentina, che era stata terra di immigrazione fino agli anni ’90, ha visto una parte degli immigrati più recenti ritornare verso Cile, Bolivia, Paraguay e Perù e una parte della sua popolazione cercare lavoro in Europa avvalendosi dei sistemi di cittadinanza che favoriscono le famiglie degli antichi emigrati.
ASIA
Rispetto alle altre aree del mondo, le migrazioni nel grande continente asiatico ha caratteristiche più organizzate ed “ufficiali”, sia perché numerosi governi, dalle Filippine all’Indonesia fino al Vietnam, la promuovono con programmi che prevedono anche formazione e assistenza agli emigranti, sia per la presenza di agenzie private che in piena legalità hanno funzione di broker rispetto alla domanda di lavoro dei Paesi sviluppati. Il processo tende però a essere sempre meno ordinato, a causa della forte spinta demografica che nei Paesi di emigrazione rafforza l’offerta di lavoro e della sempre maggior domanda nei Paesi che importano manodopera. Il risultato è una previsione di aumento delle migrazioni nei prossimi anni, con una crescente incidenza degli irregolari.
Dove vanno i migranti asiatici? Chi resta all’interno del continente si dirige verso il Giappone, Singapore, la Corea del Sud, Taiwan, tutti Paesi a invecchiamento rapido. E’ invece in calo l’emigrazione verso i Paesi del Golfo, che fin dagli anni ’70 sono stati la principale destinazione dei lavoratori del Continente. La domanda di lavoro in questi Paesi è infatti diminuita negli anni ’90 a causa del completamento di molti progetti di costruzione, ma soprattutto per una precisa scelta di “indigenizzazione” della manodopera, con incentivi alle imprese che assumevano locali anziché stranieri.
Continuano invece i flussi verso i Paesi più sviluppati del Nordamerica e dell’Europa, con caratteristiche professionali piuttosto definite, dai lavoratori domestici filippini (il governo di Manila stima che circa sette milioni di connazionali vivano all’estero) ai tecnici informatici indiani. l’Iran, un tempo Paese di immigrazione, sta registrando flussi crescenti in uscita, con un flusso annuale di circa 285mila lavoratori, soprattutto verso Europa e Medio oriente. Attualmente ci sono circa tre milioni di iraniani che lavorano temporaneamente all’estero: in gran parte maschi, giovani e ben istruiti.
Nel quadro asiatico, la Cina costituisce un caso particolare. Il grande Paese asiatico fa registrare ampi movimenti interni (120 milioni di persone nel 2003 hanno vissuto per più di sei mesi fuori dalla loro residenza), ed è al tempo stesso Paese di esportazione e di importazione di manodopera. Va detto innanzitutto che il flusso verso l’estero, sia per lavoro temporaneo, studio o turismo, raggiunge cifre molto elevate, con oltre 20 milioni di visti temporanei in uscita nel 2004 e un numero variabile dai 70 ai 120mila cinesi che ogni anno sceglie di trasferirsi all’estero. Al tempo stesso, gli ingressi in Cina per ragioni di lavoro hanno riguardato nel 2001 ben 120mila stranieri, anche se in molti casi si è trattato di permessi per brevi periodi, e hanno riguardato soprattutto personale a livello manageriale assunto da imprese estere o docenti universitari.
Negli ultimi 25 anni, più di 700mila cinesi sono andati all’estero a studiare. Di questi, più di 170mila sono tornati al paese d’origine, avvalendosi anche di programmi governativi che li incentivano nella scelta del luogo dove insediarsi e nell’acquisto di attrezzature per avviare nuove attività. Anche l’80 per cento dei membri dell’Accademia delle Scienze cinese ha studiato all’estero.
OCEANIA
Australia e Nuova Zelanda sono tradizionali terre d’immigrazione: il 17,4 per cento della popolazione australiana e il 19 per cento di quella neozelandese secondo l’ultimo censimento risultavano nate all’estero. La politica nei due grandi Paesi dell’Oceania sta però cambiando, con una propensione verso l’immigrazione di manodopera qualificata e di persone che intendono avviare attività economiche. E’ in aumento, rispetto alla tradizionale immigrazione europea, il flusso dei lavoratori provenienti dall’Asia e dalla Polinesia, con una particolare attenzione anche ai cittadini dei piccoli Stati del Pacifico che a causa dell’innalzamento dell’oceano e dell’accentuarsi dei fenomeni meteorologici estremi dovranno prevedibilmente lasciare le loro isole: un promemoria, questo, di migrazioni ben più vaste che potrebbero investire tutto il mondo a causa dell’effetto serra.
EUROPA
Come si colloca il Vecchio continente in questi vasti movimenti, resi sempre più facili dal basso costo dei trasporti e dal flusso globale delle informazioni? In molti Paesi europei l’immigrazione fa la differenza tra calo della popolazione (dovuto al movimento naturale) ed aumento o stabilità complessiva. In termini assoluti e usando dati confrontabili, nel 2003 l’immigrazione più elevata si è avuta in Spagna (con un saldo attivo di 594mila unità) e in Italia (511mila), seguite da Germania, (166mila) e Regno Unito (103mila). Da questi dati appare chiaramente che i Paesi che hanno assorbito un maggior numero di migranti in passato sono oggi sottoposti a pressione minore di quanto accade invece per i Paesi dell’Europa meridionale. E’ difficile però quantificare il numero complessivo degli immigrati in Europa, perché a differenza per esempio degli Stati Uniti o dell’Australia, che censiscono chi è nato all’estero, quasi tutti i Paesi europei usano il criterio della nazionalità; poiché questa viene concessa anche agli immigrati dopo un certo numero di anni, la distinzione a fini statistici diventa poco praticabile. Al tempo stesso, continuano a essere considerati “stranieri” anche i figli degli immigrati che sono nati e crescono nel Paese europeo, ma i cui genitori non hanno cambiato nazionalità. Nel complesso, comunque, le stime della popolazione giuridicamente considerata straniera al giro di boa dei censimenti del 2000 – 2001 nell’insieme dei 15 Paesi dell’Unione europea pre-allargamento si aggiravano sui 20 milioni di unità. Ma gli statistici stimano che gli immigrati di prima generazione nei 15 Paesi, compresi quelli che hanno già ottenuto la nazionalità, ammontino a circa 33 milioni.
Qual è stato l’effetto dell’allargamento della Ue sui flussi migratori? In realtà molti Paesi hanno imposto limitazioni temporanee per evitare l’arrivo in massa dell’ “idraulico polacco”. In prospettiva, però, gli esperti stimano che i Paesi dell’Europa centrale non abbiamo il potenziale demografico per ampi movimenti, perché stanno anch’essi invecchiando. Anzi, grazie anche agli effetti di sviluppo economico attuali o attesi dell’ingresso nella Ue, alcuni di essi, come Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Slovenia stanno già diventando aree d’immigrazione.
Nel complesso, si stima che l’Europa occidentale e centrale (esclusa cioè l’area ex sovietica. che ha visto ampi fenomeni migratori tra le nuove repubbliche dopo la dissoluzione dell’Urss) ospiti tra i 36 e i 39 milioni di migranti internazionali, un totale più o meno pari alla popolazione degli Stati Uniti nata all’estero. Tuttavia, ammonisce lo Iom, l’integrazione economica e politica degli immigranti in Europa si verifica con maggiore lentezza rispetto agli Usa. Ed è importante a questo proposto riportare la conclusione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: “Durante il 21° secolo, per ragioni demografiche ed economiche, tutti gli Stati che sono o diverranno membri della Ue continueranno a essere o diventeranno Paesi d’immigrazione. Dopo il 2010, molti Paesi dovranno sviluppare politiche di stimolo all’immigrazione per far fronte ai loro fabbisogni di manodopera. Per un periodo relativamente breve, le migrazioni europee dall’Est all’Ovest continueranno ad avere un ruolo, ma nel medio e lungo termine i potenziali migranti dovranno essere reclutati in altre regioni del mondo. L’Europa dovrà allora competere con i Paesi tradizionali d’immigrazione, come Australia, Canada e Stati Uniti, per far fronte ai vuoti nel mercato del lavoro con manodopera qualificata. Ma qualsiasi politica che miri a regolare l’immigrazione in un regime coerente e a favorire l’integrazione e la cittadinanza dei migranti richiede il supporto delle popolazioni locali”. E’ quindi necessario spiegare agli europei che è anche nel loro interesse dar vita a una politica mirante a forgiare e non a bloccare l’immigrazione. Anche se una quota d’immigrazione dovrà comunque essere riservata alle politiche di solidarietà verso i più sfortunati, il problema più generale sarà piuttosto quello di favorire l’accesso di chi meglio può integrarsi, dare il contributo più valido al Paese d’arrivo e in prospettiva diventare cittadino europeo.
www.donatosperoni.it
Pubblicato su East n.11
In cinque anni, dal 2000 al 2005, il numero dei migranti è aumentato di 15 milioni di unità. La crescita recente è dovuta soprattutto alla ricerca di condizioni di vita migliori, piuttosto che ad eventi politici (che pure incidono) e sta avendo conseguenze di grande impatto. Gli effetti economici sono in larga misura positivi, perché le migrazioni danno un contributo fondamentale all’economia dei paesi ricchi, affetti da un grave invecchiamento demografico, e al tempo stesso con i trasferimenti di denaro ai Paesi d’origine contribuiscono a garantire la sopravvivenza di intere regioni. Sul piano sociale però aprono problemi non facili, di assimilazione e multiculturalità. In molti casi le popolazioni dei Paesi industrializzati stentano a riconoscere di aver bisogno dell’immigrazione e tendono a politiche estreme ed ideologizzate (dal rifiuto totale all’apertura indiscriminata) anziché gestirla al meglio per favorire il proprio sviluppo.
Il quadro statistico complessivo è tenuto dall’Organizzazione internazionale per le Migrazione (Iom è la sigla inglese usata correntemente), un’Agenzia nata cinquant’anni fa nell’ambito dell’Onu per occuparsi dei movimenti di popolazione provocati in Europa dalla seconda guerra mondiale ed evolutasi poi in una struttura globale che si è occupata dei boat people, del Kosovo, dello tsunami e tende a essere sempre più il governing body delle politiche relative ai grandi spostamenti. Gli interventi di aiuto alle persone in fuga da guerre e persecuzioni politiche sono però gestiti dall’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e dall’UNRWA, l’Agenzia dell’Onu che dal 1949 si occupa dei profughi palestinesi nei Paesi del Medio Oriente. Il numero dei rifugiati affidati alle cure dell’UNHCR è aumentato da 2 milioni nel 1975 fino a una punta di 16 milioni nel 1990, per poi scendere, soprattutto grazie al parziale miglioramento della situazione africana, a 8,4 milioni di persone nel 2005. A questo quadro vanno però aggiunti i 4,3 milioni di palestinesi registrati sotto la gestione UNRWA e ben 6,6 milioni di internally displaced persons (Idp), cioè persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case per cause di guerra o persecuzione ma che continuano a vivere all’interno dello stesso Paese. Va anzi detto che il numero delle Idp è in crescita: si stima che nel 2004 fossero tra i 20 e i 25 milioni di persone, con le più alte concentrazioni in Sudan, Angola, Colombia, Liberia, Sri Lanka, Bosnia Erzegovina e in alcuni Paesi dell’ex Unione sovietica.
Nel panorama dei migranti, i rifugiati occupano però una posizione che, se dirlo non apparisse cinico, si potrebbe definire privilegiata. Hanno infatti diritto a visti d’ingresso in molti Paesi dove altrimenti non riuscirebbero a entrare, mentre altrettanto drammatica, ma meno protetta, è la situazione di chi fugge da carestia e miseria, situazioni che non danno diritto allo status di rifugiato. E’ tra questi in particolare che si annoverano i migranti irregolari: l’Onu stima che siano ormai nel mondo tra i 30 e i 40 milioni le persone che vivono in un Paese senza alcun permesso e quindi anche senza alcuna tutela giuridica.
L’emigrazione, però, non è fatta solo di miseria e di dolore. Si calcola per esempio che circa 400mila scienziati e tecnici dei paesi in via di sviluppo, cioè tra il 30 e il 50 per cento del totale, siano impegnati nei paesi industrializzati. Questo brain drain, la fuga dei cervelli, quanto è grave per il Paese d’origine? Non c’è dubbio che talvolta le situazioni diventano ingestibili: i laureati dei Paesi centroamericani si trasferiscono negli Stati Uniti in una percentuale che varia dal 25 al 40%, con una punta clamorosa in Giamaica, i cui laureati stanno per l’80% negli Usa. E ci sono più medici etiopici a Chicago di quanti non pratichino in Etiopia. Però, soprattutto dopo il Gats, l’Accordo generale sullo scambio di servizi che è entrato in vigore dal 2000, l’interazione delle esperienze tra Paesi di destinazione e Paesi d’origine è divenuto più frequente, tanto che oggi alcuni studiosi non parlano più di brain drain, quanto di brain gain (vedere riquadro).
Quali sono i movimenti di popolazione più significativi in questa fase storica? Ecco un quadro aggiornato, tratto soprattutto dai documenti della Iom.
AFRICA E MEDIO ORIENTE
In futuro gran parte dell’emigrazione africana proverrà dalle aree subsahariane. La caduta del tasso di fertilità in Algeria, Marocco e Tunisia negli ultimi 25 anni è stato pari a quello riscontrato in Francia nell’arco di due secoli e attualmente la Tunisia è già allineata al livello di 1,55 figli per donna, più o meno come i Paesi occidentali. Si prevede pertanto che dopo il 2010 il flusso migratorio dal Maghreb calerà fortemente.
Nel complesso, però, la mobilità della popolazione africana è la più elevata del mondo: non solo verso l’Europa, gli Stati Uniti, i Paesi del Golfo, ma anche tra i diversi Paesi del continente nero. E aumenterà in futuro. Poche cifre bastano per dare il senso del problema. Oggi l’Africa ha una popolazione di 680 milioni di persone, di cui quasi il 50 per cento vive al disotto della soglia di povertà. Al confronto, i 25 membri dell’Unione europea hanno una popolazione quasi uguale: 630 milioni. Ma i demografi prevedono che nel 2050 la popolazione europea complessiva sarà più o meno uguale all’attuale. Nello stesso tempo la popolazione africana triplicherà e si collocherà tra 1,6 e 1,8 milioni: un fiume di persone lascerà si metterà in moto per cercare condizioni migliori.
L’emigrazione africana è diretta verso l’Europa, gli Stati Uniti, i Paesi del Golfo, ma ha anche una forte componente intraregionale. Si calcola infatti che i migranti che vivono in un Paese africano diverso da quello d’origine siano oggi circa 16 milioni, con una differenza importante rispetto al passato: diminuisce costantemente il numero dei rifugiati e cresce invece quello dei migranti per ragioni economiche, che erano solo due milioni nel 1990 e avevano raggiunto quota 12,7 milioni nel 2000. In parte gli spostamenti sono dovuti alle carestie che rendono inabitabili intere zone, ma molto incide la scoperta e la ricerca di nuovi modelli di comportamento diversi dalla tradizionale vita di villaggio. Ed infatti alle migrazioni dall’uno all’altro Stato vanno aggiunti gli spostamenti interni a ciascun Paese, che sono difficilmente valutabili ma che sono ingenti. Il tasso di urbanizzazione della popolazione africana è del 3,5 per cento all’anno, il più alto del mondo, tanto che si calcola che nel 2030 il 54 per cento delle popolazione africana vivrà in metropoli enormi e ingestibili, che offriranno scarse possibilità di lavoro. Prima che una politica di forte promozione dello sviluppo nelle zone rurali possa correggere questa tendenza è prevedibile che il movimento verso le città africane e dalle città ad altri continenti interesserà decine di milioni di persone.
Da notare che nei movimenti migratori africani è fortemente in crescita la componente femminile, passata dal 42 per cento del totale dei migranti negli anni ’60 all’attuale 47. Con una forte differenza qualitativa: mentre in passato le donne si muovevano soprattutto per seguire il capo famiglia, ora emigrano da sole, alla ricerca di opportunità di lavoro come collaboratrici domestiche, badanti o anche in lavori più qualificati. In Gran Bretagna nel 2001 erano registrate 382 infermiere dello Zimbabwe, pari alla capacità formativa di quel Paese in oltre tre anni.
Anche il Medio oriente è un’altra area di forti migrazioni. In parte per i problemi storici della regione, dal dramma palestinese originato dalla guerra del 1948 alla diaspora irachena (un fenomeno quest’ultimo cominciato vent’anni fa, ai tempi della guerra con l’Iran), che complessivamente portano il conteggio a circa cinque milioni di rifugiati. In parte per la forte attrazione dei paesi petroliferi, che ospitano circa 14 milioni di lavoratori stranieri. Nell’insieme dei sei paesi del Golfo persico gli stranieri costituiscono il 35 per cento della popolazione e addirittura il 70 per cento della forza lavoro, con punte oltre l’80 in Quatar, Kuwait e negli Emirati.
Nella regione si è anche radicata una cospicua popolazione di apolidi detti Bidun dal termine arabo “bidun jinsiya”, che significa “senza nazionalità”. I Bidun sono presenti ormai da molti anni in numerosi Paesi, ma con diritti fortemente ridotti sia per la sicurezza sociale, sia nell’acquisto di beni immobili.
AMERICA
Ci sono molte incertezze nel conteggio dei migranti nel Nuovo Continente, ma stime attendibili fanno ammontare a circa 20 milioni gli attuali emigrati dall’America latina e dai Paesi caraibici. Fino agli anni ‘70 non era così: America latina e Caraibi attraevano immigranti, soprattutto da Spagna, Italia, Portogallo e Giappone. Le difficoltà economiche in Argentina e Venezuela, ma anche in altri Paesi, hanno rovesciato questo trend tanto che per cinque anni, dal 1995 al 2000, la percentuale di emigranti da America Latina e Caraibi sul totale della popolazione è stata più alta di quella di tutte le altre regioni del mondo.
I grandi magneti di questi movimenti sono Stati Uniti e Canada. Nel 2000 il Census americano ha verificato che negli Usa c’erano 28,4 milioni di abitanti nati all’estero, di cui circa la metà proveniente dall’America latina. Una stima Onu fa ascendere gli immigrati negli Usa, compresi gli irregolari, a 35 milioni di persone. La politica nella concessione dei visti sta diventando fortemente restrittiva negli ultimi anni, in parte come reazione agli eventi dell’11 settembre 2001. E’ indicativo di questa tendenza che il numero dei visti per asilo politico concessi dal governo di Washington è diminuito da 68.426 nel 2001 a 28.455 nel 2003. Il governo di Washington deve però affrontare l’altro grave problema migratorio: la grande massa di irregolari che già vive nel Paese e che continua ad arrivare soprattutto attraverso la frontiera messicana: una situazione molto difficile da gestire perché questa grande massa di irregolari (circa 500mila unità all’anno) è soggetta a ogni forma di vessazione e che difficilmente potrà essere risolta attraverso la costruzione di barriere sul confine. Il numero degli irregolari è talmente consistente da renderne importante l’apporto economico e da dare loro anche forza politica, come si è visto in recenti manifestazioni.
Anche il Canada, che un tempo era terra di emigrazione qualificata, ha subito l’impatto dei nuovi migranti. Tra il 1961 e il 2001, la popolazione latinoamericana e caraibica in Canada è cresciuta di 45 volte, da 12.900 a 585.800 unità, mentre la popolazione di origine europea è aumentata da 809.330 a 1.478.230 unità. Si tratta in entrambi i casi di un’immigrazione per ragioni di lavoro, fortemente polarizzata tra una parte con un elevato livello d’istruzione e un’altra semianalfabeta. Questa situazione ha aperto nella società canadese un grande dibattito sulla gestione dell’immigrazione e sul suo apporto allo sviluppo economico.
Le migrazioni interamericane non sono comunque dirette soltanto verso i due grandi Paesi del Nord: situazione di incertezza economica o tensioni politiche hanno messo in moto movimenti consistenti anche tra i Paesi dell’America latina. La complessità di questi movimenti è dimostrata dal caso dell’Ecuador: in cinque anni, dal 1997 al 2002, 550mila ecuadoregni, pari a un quinto della forza lavoro, ha lasciato il Paese, per essere però in larga misura sostituiti al Nord da popolazioni in fuga dalla Columbia e al Sud da migranti dal Perù. E l’Argentina, che era stata terra di immigrazione fino agli anni ’90, ha visto una parte degli immigrati più recenti ritornare verso Cile, Bolivia, Paraguay e Perù e una parte della sua popolazione cercare lavoro in Europa avvalendosi dei sistemi di cittadinanza che favoriscono le famiglie degli antichi emigrati.
ASIA
Rispetto alle altre aree del mondo, le migrazioni nel grande continente asiatico ha caratteristiche più organizzate ed “ufficiali”, sia perché numerosi governi, dalle Filippine all’Indonesia fino al Vietnam, la promuovono con programmi che prevedono anche formazione e assistenza agli emigranti, sia per la presenza di agenzie private che in piena legalità hanno funzione di broker rispetto alla domanda di lavoro dei Paesi sviluppati. Il processo tende però a essere sempre meno ordinato, a causa della forte spinta demografica che nei Paesi di emigrazione rafforza l’offerta di lavoro e della sempre maggior domanda nei Paesi che importano manodopera. Il risultato è una previsione di aumento delle migrazioni nei prossimi anni, con una crescente incidenza degli irregolari.
Dove vanno i migranti asiatici? Chi resta all’interno del continente si dirige verso il Giappone, Singapore, la Corea del Sud, Taiwan, tutti Paesi a invecchiamento rapido. E’ invece in calo l’emigrazione verso i Paesi del Golfo, che fin dagli anni ’70 sono stati la principale destinazione dei lavoratori del Continente. La domanda di lavoro in questi Paesi è infatti diminuita negli anni ’90 a causa del completamento di molti progetti di costruzione, ma soprattutto per una precisa scelta di “indigenizzazione” della manodopera, con incentivi alle imprese che assumevano locali anziché stranieri.
Continuano invece i flussi verso i Paesi più sviluppati del Nordamerica e dell’Europa, con caratteristiche professionali piuttosto definite, dai lavoratori domestici filippini (il governo di Manila stima che circa sette milioni di connazionali vivano all’estero) ai tecnici informatici indiani. l’Iran, un tempo Paese di immigrazione, sta registrando flussi crescenti in uscita, con un flusso annuale di circa 285mila lavoratori, soprattutto verso Europa e Medio oriente. Attualmente ci sono circa tre milioni di iraniani che lavorano temporaneamente all’estero: in gran parte maschi, giovani e ben istruiti.
Nel quadro asiatico, la Cina costituisce un caso particolare. Il grande Paese asiatico fa registrare ampi movimenti interni (120 milioni di persone nel 2003 hanno vissuto per più di sei mesi fuori dalla loro residenza), ed è al tempo stesso Paese di esportazione e di importazione di manodopera. Va detto innanzitutto che il flusso verso l’estero, sia per lavoro temporaneo, studio o turismo, raggiunge cifre molto elevate, con oltre 20 milioni di visti temporanei in uscita nel 2004 e un numero variabile dai 70 ai 120mila cinesi che ogni anno sceglie di trasferirsi all’estero. Al tempo stesso, gli ingressi in Cina per ragioni di lavoro hanno riguardato nel 2001 ben 120mila stranieri, anche se in molti casi si è trattato di permessi per brevi periodi, e hanno riguardato soprattutto personale a livello manageriale assunto da imprese estere o docenti universitari.
Negli ultimi 25 anni, più di 700mila cinesi sono andati all’estero a studiare. Di questi, più di 170mila sono tornati al paese d’origine, avvalendosi anche di programmi governativi che li incentivano nella scelta del luogo dove insediarsi e nell’acquisto di attrezzature per avviare nuove attività. Anche l’80 per cento dei membri dell’Accademia delle Scienze cinese ha studiato all’estero.
OCEANIA
Australia e Nuova Zelanda sono tradizionali terre d’immigrazione: il 17,4 per cento della popolazione australiana e il 19 per cento di quella neozelandese secondo l’ultimo censimento risultavano nate all’estero. La politica nei due grandi Paesi dell’Oceania sta però cambiando, con una propensione verso l’immigrazione di manodopera qualificata e di persone che intendono avviare attività economiche. E’ in aumento, rispetto alla tradizionale immigrazione europea, il flusso dei lavoratori provenienti dall’Asia e dalla Polinesia, con una particolare attenzione anche ai cittadini dei piccoli Stati del Pacifico che a causa dell’innalzamento dell’oceano e dell’accentuarsi dei fenomeni meteorologici estremi dovranno prevedibilmente lasciare le loro isole: un promemoria, questo, di migrazioni ben più vaste che potrebbero investire tutto il mondo a causa dell’effetto serra.
EUROPA
Come si colloca il Vecchio continente in questi vasti movimenti, resi sempre più facili dal basso costo dei trasporti e dal flusso globale delle informazioni? In molti Paesi europei l’immigrazione fa la differenza tra calo della popolazione (dovuto al movimento naturale) ed aumento o stabilità complessiva. In termini assoluti e usando dati confrontabili, nel 2003 l’immigrazione più elevata si è avuta in Spagna (con un saldo attivo di 594mila unità) e in Italia (511mila), seguite da Germania, (166mila) e Regno Unito (103mila). Da questi dati appare chiaramente che i Paesi che hanno assorbito un maggior numero di migranti in passato sono oggi sottoposti a pressione minore di quanto accade invece per i Paesi dell’Europa meridionale. E’ difficile però quantificare il numero complessivo degli immigrati in Europa, perché a differenza per esempio degli Stati Uniti o dell’Australia, che censiscono chi è nato all’estero, quasi tutti i Paesi europei usano il criterio della nazionalità; poiché questa viene concessa anche agli immigrati dopo un certo numero di anni, la distinzione a fini statistici diventa poco praticabile. Al tempo stesso, continuano a essere considerati “stranieri” anche i figli degli immigrati che sono nati e crescono nel Paese europeo, ma i cui genitori non hanno cambiato nazionalità. Nel complesso, comunque, le stime della popolazione giuridicamente considerata straniera al giro di boa dei censimenti del 2000 – 2001 nell’insieme dei 15 Paesi dell’Unione europea pre-allargamento si aggiravano sui 20 milioni di unità. Ma gli statistici stimano che gli immigrati di prima generazione nei 15 Paesi, compresi quelli che hanno già ottenuto la nazionalità, ammontino a circa 33 milioni.
Qual è stato l’effetto dell’allargamento della Ue sui flussi migratori? In realtà molti Paesi hanno imposto limitazioni temporanee per evitare l’arrivo in massa dell’ “idraulico polacco”. In prospettiva, però, gli esperti stimano che i Paesi dell’Europa centrale non abbiamo il potenziale demografico per ampi movimenti, perché stanno anch’essi invecchiando. Anzi, grazie anche agli effetti di sviluppo economico attuali o attesi dell’ingresso nella Ue, alcuni di essi, come Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Slovenia stanno già diventando aree d’immigrazione.
Nel complesso, si stima che l’Europa occidentale e centrale (esclusa cioè l’area ex sovietica. che ha visto ampi fenomeni migratori tra le nuove repubbliche dopo la dissoluzione dell’Urss) ospiti tra i 36 e i 39 milioni di migranti internazionali, un totale più o meno pari alla popolazione degli Stati Uniti nata all’estero. Tuttavia, ammonisce lo Iom, l’integrazione economica e politica degli immigranti in Europa si verifica con maggiore lentezza rispetto agli Usa. Ed è importante a questo proposto riportare la conclusione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: “Durante il 21° secolo, per ragioni demografiche ed economiche, tutti gli Stati che sono o diverranno membri della Ue continueranno a essere o diventeranno Paesi d’immigrazione. Dopo il 2010, molti Paesi dovranno sviluppare politiche di stimolo all’immigrazione per far fronte ai loro fabbisogni di manodopera. Per un periodo relativamente breve, le migrazioni europee dall’Est all’Ovest continueranno ad avere un ruolo, ma nel medio e lungo termine i potenziali migranti dovranno essere reclutati in altre regioni del mondo. L’Europa dovrà allora competere con i Paesi tradizionali d’immigrazione, come Australia, Canada e Stati Uniti, per far fronte ai vuoti nel mercato del lavoro con manodopera qualificata. Ma qualsiasi politica che miri a regolare l’immigrazione in un regime coerente e a favorire l’integrazione e la cittadinanza dei migranti richiede il supporto delle popolazioni locali”. E’ quindi necessario spiegare agli europei che è anche nel loro interesse dar vita a una politica mirante a forgiare e non a bloccare l’immigrazione. Anche se una quota d’immigrazione dovrà comunque essere riservata alle politiche di solidarietà verso i più sfortunati, il problema più generale sarà piuttosto quello di favorire l’accesso di chi meglio può integrarsi, dare il contributo più valido al Paese d’arrivo e in prospettiva diventare cittadino europeo.
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Pubblicato su East n.11
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