Enti pubblici e contratti derivati
Un federalismo sprecone
Servono organi di controllo esterni e un ripensamento completo delle potestà degli enti localidi Enrico Cisnetto - 22 ottobre 2007
Un altro “capolavoro” del nostro federalismo sprecone. Siccome agli enti locali non bastava aver raggiunto la strabiliante quota di 110 miliardi di debito, il 7% dell’indebitamento pubblico nazionale, hanno provveduto anche a caricarsi di contratti derivati, cioè quegli strumenti finanziari di scambio (swap) che vengono utilizzati per coprirsi dal rischio di rialzi dei tassi d’interesse: secondo la centrale rischi di Bankitalia, ad agosto l’esposizione degli istituti di credito e delle finanziarie italiane nei confronti delle amministrazioni decentrate ammontava a 1,055 miliardi di euro, ben il 27% in più degli 830 milioni del giugno 2006. E il dato è pure sottostimato, visto che le cifre non comprendono i derivati stipulati dalle banche estere tramite filiali, visto che non rientrano tra gli intermediari per i quali è previsto l’obbligo di registrazione al servizio di Bankitalia. Infatti, la Corte dei Conti a luglio calcolava per le sole Regioni un ammontare complessivo di capitale swappato pari a quasi 10,5 miliardi, con un incremento del 67% rispetto all’anno precedente.
E già all’epoca la magistratura contabile metteva in allarme gli enti locali di piccola e media dimensione, i cui contratti sembravano avere strutture fortemente a rischio, se non già in perdita a fronte dell’evoluzione dei tassi. I vantaggi erano riscontrabili solo per i primi anni di durata contrattuale, mentre successivamente le condizioni evolvevano con forte probabilità di perdita per l’ente. Fin qui la denuncia di un fenomeno abnorme, che era bene venisse alla luce. Ora, però, è necessario anche comprendere di chi siano le responsabilità. Ed è perfettamente inutile, in questo come nei casi dei prodotti finanziari a rischio per società e privati, dare addosso alle banche.
Perché l’idealtipo del risparmiatore come soggetto debole in balìa dell’orco cattivo, che già regge poco quando la controparte sono soggetti perfettamente in grado di comprendere i rischi sottesi al tipo di investimento, crolla miseramente se parliamo di amministrazioni locali. Le quali hanno invece firmato i contratti con l’obiettivo di ottenere subito finanziamenti con lunghi periodi di ammortamento, rimandando poi alle giunte successive il “rosso” da saldare. Un modo per far cassa da spendersi elettoralmente, senza avere l’obbligo di rappresentarla come passività nei bilanci, e spalmando il debito su periodi più lunghi del ciclo politico. Bel risultato di quel federalismo che ci era stato venduto come il modo migliore di avvicinare la politica al cittadino. Rimedi? Prima di tutto bisogna affidare ad un organismo terzo – per esempio, Bankitalia – una valutazione tecnica preventiva della rischiosità del prodotto sottoscritto dall’ente, visto che in questo modo cadrebbe l’alibi dell’ignoranza. Ma questo riguarda solo il futuro.
Per l’oggi il governo abbia il coraggio di penalizzare nei trasferimenti quelle amministrazioni che si sono rivelate poco oculate. Più in generale, la soluzione definitiva risiede nel ripensamento completo delle potestà degli enti locali. I quali sono campioni di inefficienza nella spesa e mettono ampiamente le mani nelle tasche dei cittadini, visto che negli ultimi dieci anni le tasse locali sono cresciute del 111%. Adesso che hanno pensato di inguaiare anche le generazioni future, non è il caso di darci un taglio?
www.enricocisnetto.it
E già all’epoca la magistratura contabile metteva in allarme gli enti locali di piccola e media dimensione, i cui contratti sembravano avere strutture fortemente a rischio, se non già in perdita a fronte dell’evoluzione dei tassi. I vantaggi erano riscontrabili solo per i primi anni di durata contrattuale, mentre successivamente le condizioni evolvevano con forte probabilità di perdita per l’ente. Fin qui la denuncia di un fenomeno abnorme, che era bene venisse alla luce. Ora, però, è necessario anche comprendere di chi siano le responsabilità. Ed è perfettamente inutile, in questo come nei casi dei prodotti finanziari a rischio per società e privati, dare addosso alle banche.
Perché l’idealtipo del risparmiatore come soggetto debole in balìa dell’orco cattivo, che già regge poco quando la controparte sono soggetti perfettamente in grado di comprendere i rischi sottesi al tipo di investimento, crolla miseramente se parliamo di amministrazioni locali. Le quali hanno invece firmato i contratti con l’obiettivo di ottenere subito finanziamenti con lunghi periodi di ammortamento, rimandando poi alle giunte successive il “rosso” da saldare. Un modo per far cassa da spendersi elettoralmente, senza avere l’obbligo di rappresentarla come passività nei bilanci, e spalmando il debito su periodi più lunghi del ciclo politico. Bel risultato di quel federalismo che ci era stato venduto come il modo migliore di avvicinare la politica al cittadino. Rimedi? Prima di tutto bisogna affidare ad un organismo terzo – per esempio, Bankitalia – una valutazione tecnica preventiva della rischiosità del prodotto sottoscritto dall’ente, visto che in questo modo cadrebbe l’alibi dell’ignoranza. Ma questo riguarda solo il futuro.
Per l’oggi il governo abbia il coraggio di penalizzare nei trasferimenti quelle amministrazioni che si sono rivelate poco oculate. Più in generale, la soluzione definitiva risiede nel ripensamento completo delle potestà degli enti locali. I quali sono campioni di inefficienza nella spesa e mettono ampiamente le mani nelle tasche dei cittadini, visto che negli ultimi dieci anni le tasse locali sono cresciute del 111%. Adesso che hanno pensato di inguaiare anche le generazioni future, non è il caso di darci un taglio?
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.