Il rinvio di Basilea2 e le banche italiane
Un’altra occasione mancata
Il credito è fondamentale per il nostro capitalismo.Ma molti sono i nodi da scioglieredi Enrico Cisnetto - 18 dicembre 2006
Un’occasione mancata. Dopo tanto parlare del ruolo e della responsabilità che deve avere il credito nel sostenere le aziende, Basilea 2 – l’accordo per la gestione del rischio di finanziamento che prevede anche l’assegnazione di un giudizio di merito a tutte le aziende – era l’occasione giusta per dare un segnale chiaro nella direzione giusta. Invece questa settimana è stato annunciato che l’applicazione piena delle norme arriverà soltanto nel 2008: le banche hanno esercitato la facoltà di utilizzare il rinvio contemplato da Bruxelles non essendo in regola con tutte le innovazioni procedurali necessarie. Solo quindi dal gennaio prossimo andranno in vigore i rating esterni e quelli interni, uguali per tutte le aziende e diversi da banca a banca, che le imprese creditizie utilizzeranno per erogare i prestiti. Il rinvio arriva dopo che gli istituti finanziaria avevano avuto a disposizione un’intera annata – quella appena trascorsa – per organizzarsi a dovere, ed è oggettivamente pronosticabile che il ritardo favorirà i debitori meno affidabili. In più, anche se l’ultima indagine Unioncamere ha messo in luce che il 96,1% delle pmi sono in regola con le nuove norme, le banche saranno costrette ad accantonare capitale anche per le imprese con standard creditizio debole: uno spreco di risorse che andrà a discapito di quelle virtuose.
Nulla di drammatico, per carità. Ma il fatto è comunque la spia di un rapporto difficile, quello tra banche e imprese, che è strettamente collegato alla non-evoluzione – o all’involuzione – del nostro capitalismo. Così come la recente sentenza su Bagaglino-Italcase, che rischia di creare un pericoloso precedente: se i presidenti delle banche – come è successo a Geronzi – vengono condannati semplicemente per aver partecipato ad un comitato esecutivo in cui il comitato fidi della banca rende noto di aver finanziato un’impresa in difficoltà, tutti i dirigenti rischiano di trovarsi tra Scilla (beccarsi una sanzione per aver erogato denaro a un’azienda che fallisce) e Cariddi (rischiare la citazione in giudizio per aver concorso al fallimento negando i liquidi). Con il risultato di trovarsi con l’assurdo che l’imprenditore viene totalmente sollevato da qualsiasi responsabilità: come se non esistesse. Una situazione paradossale che andrebbe risolta da parte della politica – soprattutto nell’interesse delle imprese – facendo ordine in quella bulimia legislativa che è una caratteristica tutta italiana. Ma esistono anche tutta una serie di nodi sarebbe il caso di sciogliere. Ad esempio l’ipocrita vincolo della “separazione” tra banca e impresa, sia dal lato dell’industria che da quello del credito. Anche Draghi ha fatto presente che i vincoli previsti nella legislazione italiana non sono vigenti in Europa, e quindi superare il tetto del 15% nella partecipazione dell’impresa al capitale di una banca potrebbe essere una scelta logica (così come il contrario, ovviamente). Così come l’applicazione piena della legge sul risparmio – oggi ancora carente, nonostante l’approvazione del decreto delegato – e la disciplina dell’Opa comunitaria: tutti fattori che convengono al credito come alle aziende, e che servirebbero allo sviluppo e al rinnovamento del nostro vetusto capitalismo, oltre che a effettuare l’efficiente allocazione delle risorse. Bene, la politica si svegli: è arrivato il momento di farlo. Di rinvio dopo rinvio non si può più vivere. Pubblicato sul Messaggero del 17 dicembre
Nulla di drammatico, per carità. Ma il fatto è comunque la spia di un rapporto difficile, quello tra banche e imprese, che è strettamente collegato alla non-evoluzione – o all’involuzione – del nostro capitalismo. Così come la recente sentenza su Bagaglino-Italcase, che rischia di creare un pericoloso precedente: se i presidenti delle banche – come è successo a Geronzi – vengono condannati semplicemente per aver partecipato ad un comitato esecutivo in cui il comitato fidi della banca rende noto di aver finanziato un’impresa in difficoltà, tutti i dirigenti rischiano di trovarsi tra Scilla (beccarsi una sanzione per aver erogato denaro a un’azienda che fallisce) e Cariddi (rischiare la citazione in giudizio per aver concorso al fallimento negando i liquidi). Con il risultato di trovarsi con l’assurdo che l’imprenditore viene totalmente sollevato da qualsiasi responsabilità: come se non esistesse. Una situazione paradossale che andrebbe risolta da parte della politica – soprattutto nell’interesse delle imprese – facendo ordine in quella bulimia legislativa che è una caratteristica tutta italiana. Ma esistono anche tutta una serie di nodi sarebbe il caso di sciogliere. Ad esempio l’ipocrita vincolo della “separazione” tra banca e impresa, sia dal lato dell’industria che da quello del credito. Anche Draghi ha fatto presente che i vincoli previsti nella legislazione italiana non sono vigenti in Europa, e quindi superare il tetto del 15% nella partecipazione dell’impresa al capitale di una banca potrebbe essere una scelta logica (così come il contrario, ovviamente). Così come l’applicazione piena della legge sul risparmio – oggi ancora carente, nonostante l’approvazione del decreto delegato – e la disciplina dell’Opa comunitaria: tutti fattori che convengono al credito come alle aziende, e che servirebbero allo sviluppo e al rinnovamento del nostro vetusto capitalismo, oltre che a effettuare l’efficiente allocazione delle risorse. Bene, la politica si svegli: è arrivato il momento di farlo. Di rinvio dopo rinvio non si può più vivere. Pubblicato sul Messaggero del 17 dicembre
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.