Una seconda Repubblica al collasso
Toghe rotte
Che ce li teniamo a fare, dei magistrati che vestono la toga per potere militare in una corrente?di Davide Giacalone - 03 novembre 2010
Nei giorni in cui si disfa la seconda Repubblica, compiendosi un ciclo e senza che nulla non sia stato previsto, si è distratti da una notizia piccola, che contiene una storia grande: Livio Pepino va in pensione. Con dieci anni d’anticipo, per giunta. E’ stato una delle teste pensanti e delle bocche parlanti di Magistratura Democratica, corrente, o, meglio, partito di magistrati per il quale oggi chiede il ricambio, rassegnando le dimissioni.
Con un problema: che ci sto a fare nella magistratura, si è chiesto Pepino, se non per militare in Md? E si è risposto: “stare in magistratura senza vivere intensamente Md non ha alcun senso”. Da qui le doppie dimissioni e la pensione. I dilemmi di Pepino sono interessanti, ma quello collettivo è un altro: che ce li teniamo a fare, noi tutti, dei magistrati che vestono la toga per potere militare in una corrente?
Magistratura Democratica nacque nel 1964 e ha esercitato un ruolo importante e crescente, culturale e politico. Gli uomini che la pensarono e animarono non erano affatto banali, al tempo stesso conoscitori del diritto e nemici della “giustizia borghese”. Cercarono di conciliare l’essere magistrati con l’essere rivoluzionari ritenendo la Costituzione, o, meglio, quel che loro credevano di leggerci, quale unico punto di riferimento, utile per demolire quelle stesse leggi che avrebbero dovuto applicare. Pepino lo ripeteva: “la Costituzione, nei confronti dei magistrati, prima ancora che l’obbedienza alla legge, comanda la disobbedienza a ciò che legge non è.
Disobbedienza al Palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici”. A lui dobbiamo la descrizione del come e del perché si può forzare il diritto essendo pagati per applicarlo: “la magistratura ha un compito da assolvere: quello di guardianaggio democratico duro e intransigente, fino alla resistenza, se la gravità dei fatti lo richiede”.
Imbracciarono le inchieste e le sentenze, vivendo nel mito di quanti avevano imbracciato il fucile. Ce n’era di che per considerarla una componente eversiva, ma si era ancora negli anni della guerra fredda, la sinistra era occupata dal Partito Comunista, finanziato dai nostri nemici e popolato da pensosi democratici che si battevano per la dittatura (e ora vogliono darci lezioni, che il cielo li perdoni!), la Repubblica era monca e se qualcuno si fosse azzardato a dire l’ovvio avrebbe dovuto fare i conti con le incriminazioni. Come poi, difatti, avvenne.
Ripeto, però, quelli non erano uomini banali: avevano idee solide, benché detestabili, e seppero esercitare una vera egemonia. Non furono abbastanza intelligenti e capaci, però, da vedere il punto di caduta della bomba che avevano sparato: pensavano di portare un contributo alla rivoluzione, invece crearono le condizioni del giustizialismo, teoria e prassi da destra reazionaria. Volevano cancellare la giustizia borghese, invece s’imborghesirono nell’amministrazione delle carriere.
Lottarono contro i magistrati vicini alla Democrazia Cristiana, ma lottarono e vinsero anche contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, conquistandosi una vergogna da cui si difendono solo con la bugia e l’amnesia. Sicché, infine, Livio Pepino ne racchiude la sorte: prima magistrato combattente, poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura e, infine, piuttosto che tornare al lavoro, prepensionato di lusso, ennesimo milite dell’esercito dei mantenuti che campano alle spalle dell’Italia che lavora.
Dalla rivoluzione alla pensione, in auto di servizio. Dalla Costituzione alla sistemazione. La seconda Repubblica si dissolve, nel disonore, anche perché non ha saputo essere altro che il contenitore dei relitti e dei veleni secreti dal peggio della prima, animando quindici anni di forsennate battaglie sulla giustizia, per lasciarci la peggiore del mondo.
Al punto che rimpiangiamo anche quelle toghe, veramente rosse, che seppero pensare in grande, che calcarono il terreno insurrezionale, ma che oggi appaiono giganti a confronto dell’analfabetismo che abbraccia l’esibizionismo. Questi non sono neanche più toghe rosse, sono solo toghe rotte.
Pubblicato da Libero
Con un problema: che ci sto a fare nella magistratura, si è chiesto Pepino, se non per militare in Md? E si è risposto: “stare in magistratura senza vivere intensamente Md non ha alcun senso”. Da qui le doppie dimissioni e la pensione. I dilemmi di Pepino sono interessanti, ma quello collettivo è un altro: che ce li teniamo a fare, noi tutti, dei magistrati che vestono la toga per potere militare in una corrente?
Magistratura Democratica nacque nel 1964 e ha esercitato un ruolo importante e crescente, culturale e politico. Gli uomini che la pensarono e animarono non erano affatto banali, al tempo stesso conoscitori del diritto e nemici della “giustizia borghese”. Cercarono di conciliare l’essere magistrati con l’essere rivoluzionari ritenendo la Costituzione, o, meglio, quel che loro credevano di leggerci, quale unico punto di riferimento, utile per demolire quelle stesse leggi che avrebbero dovuto applicare. Pepino lo ripeteva: “la Costituzione, nei confronti dei magistrati, prima ancora che l’obbedienza alla legge, comanda la disobbedienza a ciò che legge non è.
Disobbedienza al Palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici”. A lui dobbiamo la descrizione del come e del perché si può forzare il diritto essendo pagati per applicarlo: “la magistratura ha un compito da assolvere: quello di guardianaggio democratico duro e intransigente, fino alla resistenza, se la gravità dei fatti lo richiede”.
Imbracciarono le inchieste e le sentenze, vivendo nel mito di quanti avevano imbracciato il fucile. Ce n’era di che per considerarla una componente eversiva, ma si era ancora negli anni della guerra fredda, la sinistra era occupata dal Partito Comunista, finanziato dai nostri nemici e popolato da pensosi democratici che si battevano per la dittatura (e ora vogliono darci lezioni, che il cielo li perdoni!), la Repubblica era monca e se qualcuno si fosse azzardato a dire l’ovvio avrebbe dovuto fare i conti con le incriminazioni. Come poi, difatti, avvenne.
Ripeto, però, quelli non erano uomini banali: avevano idee solide, benché detestabili, e seppero esercitare una vera egemonia. Non furono abbastanza intelligenti e capaci, però, da vedere il punto di caduta della bomba che avevano sparato: pensavano di portare un contributo alla rivoluzione, invece crearono le condizioni del giustizialismo, teoria e prassi da destra reazionaria. Volevano cancellare la giustizia borghese, invece s’imborghesirono nell’amministrazione delle carriere.
Lottarono contro i magistrati vicini alla Democrazia Cristiana, ma lottarono e vinsero anche contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, conquistandosi una vergogna da cui si difendono solo con la bugia e l’amnesia. Sicché, infine, Livio Pepino ne racchiude la sorte: prima magistrato combattente, poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura e, infine, piuttosto che tornare al lavoro, prepensionato di lusso, ennesimo milite dell’esercito dei mantenuti che campano alle spalle dell’Italia che lavora.
Dalla rivoluzione alla pensione, in auto di servizio. Dalla Costituzione alla sistemazione. La seconda Repubblica si dissolve, nel disonore, anche perché non ha saputo essere altro che il contenitore dei relitti e dei veleni secreti dal peggio della prima, animando quindici anni di forsennate battaglie sulla giustizia, per lasciarci la peggiore del mondo.
Al punto che rimpiangiamo anche quelle toghe, veramente rosse, che seppero pensare in grande, che calcarono il terreno insurrezionale, ma che oggi appaiono giganti a confronto dell’analfabetismo che abbraccia l’esibizionismo. Questi non sono neanche più toghe rosse, sono solo toghe rotte.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.