Gli slogans aggiornati del primo Maggio
Storia, patria, lavoro. E poi?
La rincorsa di un sindacato in riflussodi Elio Di Caprio - 05 maggio 2011
Storia, Patria, Lavoro è stato lo slogan del primo maggio 2011 a Roma scelto da un sindacato in riflusso e disunito che fa fatica a trovare il suo nemico (oltre il solito Berlusconi) per ricompattare una base inquieta che, una volta cadute le ideologie, non sa con chi prendersela per il precariato che avanza, per le diseguaglianze che si aggravano, per la concorrenza sul mercato del lavoro di quegli stessi immigrati di cui non si può fare a meno.
In altri tempi sarebbero campeggiati altri titoli ed altri motti, dalla lotta di classe al capitalismo e ai monopoli, all’ intoccabile art.18 dello Statuto dei lavoratori, alla Resistenza che mai morirà.
Rinnovarsi almeno a parole non costa nulla. La vecchia sindacotacrazia ha fatto il suo tempo e non ha saputo anticipare o almeno adeguarsi ai cambiamenti della società, oscilla ancora e si divide in battaglie di retroguardia, non è riuscita a frenare l’emorragia dei nuovi iscritti attratti più dagli interessi egoistici del territorio che dalla lotta di classe, ha completamente fallito nella salvaguardia del potere d’acquisto dei lavoratori dopo l’introduzione dell’euro. Sono rimaste però in vita, nonostante tutto, le vecchie lobbies e le vecchie logiche di potere con un ricambio della classe dirigente del tutto inadeguato. I riflessi condizionati sono rimasti gli stessi, solo le parole d’ordine sono parzialmente cambiate, ma poi i giochi di rimessa sono identici ai precedenti – si tratti delle pensioni, del precariato, della produttività o della scuola- sia con i governi di destra che con quelli sinistra che si sono alternati negli ultimi 17 anni.
Nell’anniversario dell’Unità ( un bilancio obbligato?) allo slogan del Lavoro vengono affiancate altre parole meno bellicose e più ecumeniche, dalla Storia alla Patria. Se le nuove parole d’ordine non nascondessero il retropensiero che Storia significa continuità tra Risorgimento, Resistenza e Costituzione - una linea retta infranta dall’inspiegabile berlusconismo- e che la Patria viene riscoperta più per insofferenza agli egoismi territoriali, talvolta razzisti, della Lega, che per una maturazione patriottica sedimentata negli anni, si potrebbe quasi trattare di un motto nazionalsocialista.
Vengono così sintetizzati, miracolo dei tempi che viviamo, i versanti dell’inquietudine odierna legata alle trasformazioni del mercato del lavoro e all’assenza di valori di riferimento unificanti. Non poteva a questo punto non riaffiorare il termine Patria- non più l’anonimo “questo Paese”, così caro agli intercalari di politici e sindacalisti - come punto comunitario irrinunciabile dopo che per anni o decenni si era irriso ogni sentimento nazionale in nome della classe operaia universale.
La bandiera italiana sventolata orgogliosamente come simbolo identitario, l’inno nazionale ( non ancora l’inno alla Costituzione) cantato ad ogni occasione, la riscoperta delle comune radici culturali e storiche fanno da sfondo al nuovo look di un sindacato a cui evidentemente non basta più la singola rivendicazione salariale per riprendere un’egemonia sempre più traballante. Ma basta tutto ciò ad un sindacato diviso che ha perso appeal e cerca di riprendere quota?
Paese Italia, azienda Italia, e ora Patria per definire una volta per tutte, a centocinquanta anni dall’Unità, la nostra laica collocazione nel mondo che si globalizza? Se il sindacato sceglie il termine Patria sottintende una condivisione nazionale che relega nel fondo i vecchi termini classisti e dovrebbe indurlo a farsi carico dei tanti fardelli della Storia italiana passata e presente, delle tante incongruenze e contraddizioni che hanno reso noi tutti, non solo la classe operaia, quali siamo oggi, prima divisi dalle ideologie e ora vittime delle tante ubriacature cialtronesche imposte dalla propaganda. Si va dall’ICI sulla prima casa, abolita per tutti da un governo di centro destra, inviso ai sindacati, che ha lasciato però aumentare e non diminuire la pressione fiscale complessiva, all’età pensionabile spostata in avanti per tutti dopo anni di sterili polemiche sull’ingiustizia dello “scalone” che penalizzava una minima parte dei lavoratori, alla meritocrazia ora sbandierata per risollevare una società immobile che si è privata consapevolmente degli ordinari ascensori sociali proprio a causa dell’ egualitarismo di matrice sindacale, al precariato diventata regola comune di assunzione al lavoro nonostante o a causa della battaglia epocale dei sindacati contro i licenziamenti senza giusta causa.
E’ in questa Patria storica ( e ora senza frontiere) che il sindacato cerca affannosamente un suo ruolo credibile. cosa non facile quando manca il lavoro e le disuguaglianze aumentano. Ci vorrebbe un colpo d’ala, ma è inutile aspettarselo da un sindacato attento più a salvaguardare le sue burocrazie interne e a giocare di rimessa piuttosto che a misurarsi senza demagogie con le trasformazioni in atto in un contesto di rinnovata unità nazionale. A questo punto a cosa serve richiamare la Storia e la Patria accanto al lavoro?
Di questo passo, di retorica in retorica, al prossimo raduno sindacale verrà il turno del “patriottismo costituzionale” - già ci sono le prime avvisaglie- da invocare magari in funzione antiberlusconiana, per conservare quel tanto di potere sindacale che è rimasto al di là degli aggiornamenti innovativi di facciata che inseguono e non precedono i cambiamenti della società italiana.. E tutto resterà come prima con un Sindacato sempre più residuale, attento più alla conservazione che all’innovazione.
Rinnovarsi almeno a parole non costa nulla. La vecchia sindacotacrazia ha fatto il suo tempo e non ha saputo anticipare o almeno adeguarsi ai cambiamenti della società, oscilla ancora e si divide in battaglie di retroguardia, non è riuscita a frenare l’emorragia dei nuovi iscritti attratti più dagli interessi egoistici del territorio che dalla lotta di classe, ha completamente fallito nella salvaguardia del potere d’acquisto dei lavoratori dopo l’introduzione dell’euro. Sono rimaste però in vita, nonostante tutto, le vecchie lobbies e le vecchie logiche di potere con un ricambio della classe dirigente del tutto inadeguato. I riflessi condizionati sono rimasti gli stessi, solo le parole d’ordine sono parzialmente cambiate, ma poi i giochi di rimessa sono identici ai precedenti – si tratti delle pensioni, del precariato, della produttività o della scuola- sia con i governi di destra che con quelli sinistra che si sono alternati negli ultimi 17 anni.
Nell’anniversario dell’Unità ( un bilancio obbligato?) allo slogan del Lavoro vengono affiancate altre parole meno bellicose e più ecumeniche, dalla Storia alla Patria. Se le nuove parole d’ordine non nascondessero il retropensiero che Storia significa continuità tra Risorgimento, Resistenza e Costituzione - una linea retta infranta dall’inspiegabile berlusconismo- e che la Patria viene riscoperta più per insofferenza agli egoismi territoriali, talvolta razzisti, della Lega, che per una maturazione patriottica sedimentata negli anni, si potrebbe quasi trattare di un motto nazionalsocialista.
Vengono così sintetizzati, miracolo dei tempi che viviamo, i versanti dell’inquietudine odierna legata alle trasformazioni del mercato del lavoro e all’assenza di valori di riferimento unificanti. Non poteva a questo punto non riaffiorare il termine Patria- non più l’anonimo “questo Paese”, così caro agli intercalari di politici e sindacalisti - come punto comunitario irrinunciabile dopo che per anni o decenni si era irriso ogni sentimento nazionale in nome della classe operaia universale.
La bandiera italiana sventolata orgogliosamente come simbolo identitario, l’inno nazionale ( non ancora l’inno alla Costituzione) cantato ad ogni occasione, la riscoperta delle comune radici culturali e storiche fanno da sfondo al nuovo look di un sindacato a cui evidentemente non basta più la singola rivendicazione salariale per riprendere un’egemonia sempre più traballante. Ma basta tutto ciò ad un sindacato diviso che ha perso appeal e cerca di riprendere quota?
Paese Italia, azienda Italia, e ora Patria per definire una volta per tutte, a centocinquanta anni dall’Unità, la nostra laica collocazione nel mondo che si globalizza? Se il sindacato sceglie il termine Patria sottintende una condivisione nazionale che relega nel fondo i vecchi termini classisti e dovrebbe indurlo a farsi carico dei tanti fardelli della Storia italiana passata e presente, delle tante incongruenze e contraddizioni che hanno reso noi tutti, non solo la classe operaia, quali siamo oggi, prima divisi dalle ideologie e ora vittime delle tante ubriacature cialtronesche imposte dalla propaganda. Si va dall’ICI sulla prima casa, abolita per tutti da un governo di centro destra, inviso ai sindacati, che ha lasciato però aumentare e non diminuire la pressione fiscale complessiva, all’età pensionabile spostata in avanti per tutti dopo anni di sterili polemiche sull’ingiustizia dello “scalone” che penalizzava una minima parte dei lavoratori, alla meritocrazia ora sbandierata per risollevare una società immobile che si è privata consapevolmente degli ordinari ascensori sociali proprio a causa dell’ egualitarismo di matrice sindacale, al precariato diventata regola comune di assunzione al lavoro nonostante o a causa della battaglia epocale dei sindacati contro i licenziamenti senza giusta causa.
E’ in questa Patria storica ( e ora senza frontiere) che il sindacato cerca affannosamente un suo ruolo credibile. cosa non facile quando manca il lavoro e le disuguaglianze aumentano. Ci vorrebbe un colpo d’ala, ma è inutile aspettarselo da un sindacato attento più a salvaguardare le sue burocrazie interne e a giocare di rimessa piuttosto che a misurarsi senza demagogie con le trasformazioni in atto in un contesto di rinnovata unità nazionale. A questo punto a cosa serve richiamare la Storia e la Patria accanto al lavoro?
Di questo passo, di retorica in retorica, al prossimo raduno sindacale verrà il turno del “patriottismo costituzionale” - già ci sono le prime avvisaglie- da invocare magari in funzione antiberlusconiana, per conservare quel tanto di potere sindacale che è rimasto al di là degli aggiornamenti innovativi di facciata che inseguono e non precedono i cambiamenti della società italiana.. E tutto resterà come prima con un Sindacato sempre più residuale, attento più alla conservazione che all’innovazione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.