Il caso Maxxi
Soldi pubblici vs cultura
Se il patrimonio culturale italiano diventa un costo...di Davide Giacalone - 15 aprile 2012
Attorno al Maxxi si gioca una partita che riguarda il futuro di quella che dovrebbe essere la grande industria della cultura italiana. Non è solo questione di un bilancio o di un commissariamento, ma coinvolge l’idea stessa che abbiamo di noi stessi. E quella che trasmettiamo al mondo.
La pigrizia mentale induce a credere che gli amici della cultura sono favorevoli alla spesa pubblica in questo settore, mentre i suoi nemici preferiscono il braccino corto, se non direttamente il portafogli chiuso. E’ vero il contrario. Basterà riflettere: se ogni nuovo museo, teatro o orchestra si traducono, sempre e comunque, in maggiore spesa pubblica è evidente che non possiamo permettercelo è che è già tanto se riusciamo a mantenere quelli che abbiamo. Con quel tipo di approccio, dunque, l’Italia della cultura diventa un animale in via d’estinzione, di cui si tenta di proteggere gli esemplari, diffidando della loro capacità di sopravvivere. Sicché non si aprono musei, non si battezzano teatri non si organizzano orchestre. I protettori, come spesso capita, soffocano quel che vorrebbero proteggere e la spesa pubblica per la cultura si traduce in meno cultura.
Ove mai qualcuno facesse fatica a capire, ove non volesse crederci, guardi a quel che capita nel cinema: le sovvenzioni pubbliche hanno creato un solo fenomeno culturale, quello delle commissioni che le spartiscono, a loro volta spartite partiticamente, per il resto il cinema che foraggiamo con i soldi dei cittadini non solo non trova spazio nel mondo, ma manco in Italia. Abbiamo allevato i falliti, che quando dismettono i panni dei pagliacci si vestono da intellettuali e vanno in televisione a reclamare sangue di contribuente, cercando di spiegare che le loro panettonate sono cultura. I loro colleghi, in giro per il mondo, facendo un lavoro degnissimo, ricco e simpatico, provano a spremere soldi dal mercato, ricavandone laute soddisfazioni.
Torniamo al Maxxi. Ha avuto soldi pubblici per nascere e acquistare le opere che vi si trovano in modo permanente, dopo di che avrebbero dovuto camminare con le gambe di una fondazione, che pure continua a riceve soldi pubblici. E’ vero che questi fondi sono stati tagliati e ridotti, ma è anche vero che i conti del museo non tronano. Nel 2011 hanno chiuso con un deficit contenuto, settecentomila euro, ma già rivelatore: vuol dire che senza aiuti pubblici vanno sotto di brutto. Per il 2012-2014 avrebbero dovuto chiudere il bilancio preventivo lo scorso 31 dicembre, ma ancora non ci sono riusciti. Il deficit previsto, a quel che si sa, ammonterebbe a 11 milioni. Ancora una volta: se si sommano i contributi statali ne vien fuori che il museo è un disastro. Gli amministratori non ci stanno, si ribellano, ma le loro parole somigliano ad autogol. Dicono: abbiamo avuto 450 mila visitatori solo nel 2011 e una capacità di autofinanziamento di circa il 50%, nonostante il taglio del 43% dei fondi statali. Vale a dire, se la matematica non è divenuta arte bislacca, che considerano un successo coprire la metà dei costi, e che, comunque, neanche la si raggiunge quando i fondi pubblici diminuiscono drasticamente, il che equivale a sostenere che, se non fossero stati tagliati, l’autofinanziamento sarebbe irrisorio. Sembra loro un successo? Ne menano vanto? Il presidente della fondazione, Pio Baldi, è orgoglioso degli 800 visitatori di venerdì scorso, che gli sembrano tanti. Può darsi, ma se sono tanti, come egli sostiene, perché non bastano a tenere i bilanci in equilibrio? E’ segno che il museo viene venduto sotto costo. Tanto per capirsi: una partita di calcio, allo stadio, viene venduta a prezzi ben oltre il costo, e non si vede per quale mai motivo culturale i tifosi debbano finanziare la goduria degli 800 estimatori.
Dice Baldi: “nel 2010 abbiamo chiuso con 2 milioni e 380 mila euro di attivo, mentre nel 2011 con 700 mila di passivo, causati dai tagli del governo. Quindi il museo va bene”. Il museo non va bene, ma comunque meglio di tale ragionamento, perché ne deriva che l’attivo del 2010 erano i contributi dello Stato. Ma si rende conto di quel che dice? E’ come sostenere che se lo Stato mi da un milione e io non faccio niente chiudo il bilancio con un milione di attivo. Poi si spera che chiudano me. Il problema del Maxxi è che non è divenuto quel che si sperava, non è un centro gravitazionale della cultura, e quando se ne scrive, complice l’ignoranza di noi scribacchini, si fa costante riferimento all’architetto che progettò l’edificio, anziché a quel che contiene. Fossi a capo della baracca lo prenderei come un sintomo non incoraggiante. Non si tratta, però, di prendersela con questi amministratori (benché gli stessi numeri che snocciolano portano dritto al commissariamento). La loro principale responsabilità consiste nel non rendersi conto di rappresentare una dottrina che penalizza la cultura. Si tratta di guardarsi in faccia e rendersi conto che se l’immane giacimento culturale italiano è un costo, anziché una ricchezza, c’è qualche cosa di profondamente guasto. Da cambiare, non da finanziare.
Torniamo al Maxxi. Ha avuto soldi pubblici per nascere e acquistare le opere che vi si trovano in modo permanente, dopo di che avrebbero dovuto camminare con le gambe di una fondazione, che pure continua a riceve soldi pubblici. E’ vero che questi fondi sono stati tagliati e ridotti, ma è anche vero che i conti del museo non tronano. Nel 2011 hanno chiuso con un deficit contenuto, settecentomila euro, ma già rivelatore: vuol dire che senza aiuti pubblici vanno sotto di brutto. Per il 2012-2014 avrebbero dovuto chiudere il bilancio preventivo lo scorso 31 dicembre, ma ancora non ci sono riusciti. Il deficit previsto, a quel che si sa, ammonterebbe a 11 milioni. Ancora una volta: se si sommano i contributi statali ne vien fuori che il museo è un disastro. Gli amministratori non ci stanno, si ribellano, ma le loro parole somigliano ad autogol. Dicono: abbiamo avuto 450 mila visitatori solo nel 2011 e una capacità di autofinanziamento di circa il 50%, nonostante il taglio del 43% dei fondi statali. Vale a dire, se la matematica non è divenuta arte bislacca, che considerano un successo coprire la metà dei costi, e che, comunque, neanche la si raggiunge quando i fondi pubblici diminuiscono drasticamente, il che equivale a sostenere che, se non fossero stati tagliati, l’autofinanziamento sarebbe irrisorio. Sembra loro un successo? Ne menano vanto? Il presidente della fondazione, Pio Baldi, è orgoglioso degli 800 visitatori di venerdì scorso, che gli sembrano tanti. Può darsi, ma se sono tanti, come egli sostiene, perché non bastano a tenere i bilanci in equilibrio? E’ segno che il museo viene venduto sotto costo. Tanto per capirsi: una partita di calcio, allo stadio, viene venduta a prezzi ben oltre il costo, e non si vede per quale mai motivo culturale i tifosi debbano finanziare la goduria degli 800 estimatori.
Dice Baldi: “nel 2010 abbiamo chiuso con 2 milioni e 380 mila euro di attivo, mentre nel 2011 con 700 mila di passivo, causati dai tagli del governo. Quindi il museo va bene”. Il museo non va bene, ma comunque meglio di tale ragionamento, perché ne deriva che l’attivo del 2010 erano i contributi dello Stato. Ma si rende conto di quel che dice? E’ come sostenere che se lo Stato mi da un milione e io non faccio niente chiudo il bilancio con un milione di attivo. Poi si spera che chiudano me. Il problema del Maxxi è che non è divenuto quel che si sperava, non è un centro gravitazionale della cultura, e quando se ne scrive, complice l’ignoranza di noi scribacchini, si fa costante riferimento all’architetto che progettò l’edificio, anziché a quel che contiene. Fossi a capo della baracca lo prenderei come un sintomo non incoraggiante. Non si tratta, però, di prendersela con questi amministratori (benché gli stessi numeri che snocciolano portano dritto al commissariamento). La loro principale responsabilità consiste nel non rendersi conto di rappresentare una dottrina che penalizza la cultura. Si tratta di guardarsi in faccia e rendersi conto che se l’immane giacimento culturale italiano è un costo, anziché una ricchezza, c’è qualche cosa di profondamente guasto. Da cambiare, non da finanziare.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.