Il punto di Martone
Sfigati e laureati
Il valore legale del titolo di studiodi Davide Giacalone - 25 gennaio 2012
Secondo Michel Martone, viceministro al lavoro, chi non si laurea entro i 28 anni è uno “sfigato”. A parte la scelta del vocabolo, ha ragione. A patto, però, d’intendersi. Egli ha anche detto che chi sceglie di frequentare un istituto professionale è bravo, così come è da ammirare chi studia sodo, spregiativamente denominato “secchione”, piuttosto che chi fa il furbo, copia e si diploma passando impermeabile al sapere. Dopo le sue parole s’è scatenata la buriana, giacché nulla offende il luogocomunismo più delle cose ovvie.
Martone è giovane (38 anni) ed è andato in cattedra giovanissimo (29). Essendo figlio di padre noto se ne fa discendere che tutto ciò sia dovuto all’interessamento familiare. Non ne ho idea. Mi piace credere di no. L’uomo ha i numeri. Ora, però, trascinato dall’effetto di quelle sue parole, dimostri anche di avere testa per reggere la sfida e non indietreggiare.
Quel che ha detto è giusto, ma solo se si è conseguenti fino in fondo, senza aver paura di pestare i piedi a una scuola di pensiero adagiatasi sull’idea che la cultura non sia competizione, ma letteraria sapienza. Ho letto le prime reazioni: Martone non sa quel che dice, sostengono, perché non si può mettere sullo stesso piano il figlio dell’operaio e quello del ricco professionista. Dal punto di vista civico io li metto esattamente sullo stesso piano, non per questo mi sfugge l’evidente differenza economica, dalla quale, però, consegue che il figlio di chi ha meno soldi dovrà laurearsi il più in fretta possibile, per passare al lavoro e non essere un costo, mentre il figlio del ricco ha un bonus più ampio, con il quale fare lo scemo e dilapidare i soldi paterni. Anche questo è un modo di rendersi utili, separando i quattrini dagli incapaci. Questi ragionamenti hanno un senso se s’intende la laurea quale acquisizione di competenze e titoli per entrare nel mercato (del lavoro, delle professioni, dell’arte, dove si crede). Non si deve confondere il titolo di studio con l’accesso alla cultura, che non ha e non deve avere limiti d’età. Se le competenze sono vere è chiaro che disporne è un vantaggio, mentre il loro valore è dato dal mercato. Se le competenze sono fasulle, come capita a tante lauree e a troppi laureati analfabeti, allora il vantaggio consiste solo nel pezzo di carta.
Vantaggio spendibile dove, visto che non ha sostanza? Nello Stato, ovvero esattamente dove ora si trova Martone: molti studenti attempati sono dipendenti statali, militari compresi, in cerca del titolo per fare carriera. Se si vuole evitare il protrarsi dello sconcio, quindi, si deve cancellare il valore legale del titolo di studio. Martone ha ragione, ma completi in questo modo la sua affermazione, altrimenti la contraddizione è insita nella posizione che ricopre. Abbiamo tutti letto che, durante lo scorso Consiglio dei ministri, s’è aperta (e non chiusa) una discussione sul valore da attribuire al voto di laurea nei concorsi pubblici, posto che i voti non sono paragonabili, dato che esistono università di qualità e severità diverse. Discussione oziosa: il problema non è il voto, ma il valore legale del titolo. State certi che da un ateneo serio chi esce con il massimo dei voti sarà sempre avvantaggiato, mentre chi esce con il bacio in fronte e pensando che il congiuntivo sia una malattia degli occhi sarà sempre una bestia. Il che, però, presuppone libertà nel mondo del lavoro, quindi premio al merito e non al titolo. C’è chi non si è laureato, pur di far valere questo principio. Martone, che sta sia in cattedra che al ministero, non indietreggi e si spinga oltre. Oggi ha il potere di porre quella questione, quindi la responsabilità di non mancare a un dovere.
Quel che ha detto è giusto, ma solo se si è conseguenti fino in fondo, senza aver paura di pestare i piedi a una scuola di pensiero adagiatasi sull’idea che la cultura non sia competizione, ma letteraria sapienza. Ho letto le prime reazioni: Martone non sa quel che dice, sostengono, perché non si può mettere sullo stesso piano il figlio dell’operaio e quello del ricco professionista. Dal punto di vista civico io li metto esattamente sullo stesso piano, non per questo mi sfugge l’evidente differenza economica, dalla quale, però, consegue che il figlio di chi ha meno soldi dovrà laurearsi il più in fretta possibile, per passare al lavoro e non essere un costo, mentre il figlio del ricco ha un bonus più ampio, con il quale fare lo scemo e dilapidare i soldi paterni. Anche questo è un modo di rendersi utili, separando i quattrini dagli incapaci. Questi ragionamenti hanno un senso se s’intende la laurea quale acquisizione di competenze e titoli per entrare nel mercato (del lavoro, delle professioni, dell’arte, dove si crede). Non si deve confondere il titolo di studio con l’accesso alla cultura, che non ha e non deve avere limiti d’età. Se le competenze sono vere è chiaro che disporne è un vantaggio, mentre il loro valore è dato dal mercato. Se le competenze sono fasulle, come capita a tante lauree e a troppi laureati analfabeti, allora il vantaggio consiste solo nel pezzo di carta.
Vantaggio spendibile dove, visto che non ha sostanza? Nello Stato, ovvero esattamente dove ora si trova Martone: molti studenti attempati sono dipendenti statali, militari compresi, in cerca del titolo per fare carriera. Se si vuole evitare il protrarsi dello sconcio, quindi, si deve cancellare il valore legale del titolo di studio. Martone ha ragione, ma completi in questo modo la sua affermazione, altrimenti la contraddizione è insita nella posizione che ricopre. Abbiamo tutti letto che, durante lo scorso Consiglio dei ministri, s’è aperta (e non chiusa) una discussione sul valore da attribuire al voto di laurea nei concorsi pubblici, posto che i voti non sono paragonabili, dato che esistono università di qualità e severità diverse. Discussione oziosa: il problema non è il voto, ma il valore legale del titolo. State certi che da un ateneo serio chi esce con il massimo dei voti sarà sempre avvantaggiato, mentre chi esce con il bacio in fronte e pensando che il congiuntivo sia una malattia degli occhi sarà sempre una bestia. Il che, però, presuppone libertà nel mondo del lavoro, quindi premio al merito e non al titolo. C’è chi non si è laureato, pur di far valere questo principio. Martone, che sta sia in cattedra che al ministero, non indietreggi e si spinga oltre. Oggi ha il potere di porre quella questione, quindi la responsabilità di non mancare a un dovere.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.