Dopo il disastro in Sardegna
Serve un grande piano europeo per il riassetto del territorio
L'Europa inizi a fare l'Europa con un piano keynesiano di investimenti fuori dai parametri della finanza pubblicadi Enrico Cisnetto - 24 novembre 2013
“E’ colpa delle scie chimiche!”. “No, è colpa delle basi Nato”. Mentre ancora si piangono i morti della tragedia che ha colpito la Sardegna, c’è la gara a chi la spara più grossa per identificare le cause del disastro. Eppure, di fronte a drammi di questo tipo sarebbe bene ricordarsi che ad Olbia ci sono stati 21 condoni in 40 anni, ma anche che in 24 ore è caduta la pioggia che mediamente scende in 6 mesi. E che certamente il surriscaldamento globale – con la temperatura dei mari che si è alzata di quasi un grado e le piogge intense aumentate del 900% in vent’anni – è un fenomeno serio e grave, ma che si può risolvere solo nel lungo periodo e con una strategia globale. Però, per evitare che al prossimo disastro si torni a parlare della Sardegna come dell’ennesimo triste precedente di fronte al quale siamo rimasti immobili, sia l’Italia singolarmente che l’Europa possono e devono intraprendere azioni nello stesso tempo semplici e potenzialmente rivoluzionarie.
Perché se è vero che le calamità naturali ci sono sempre state nella storia dell’umanità, è anche vero che lo sfruttamento del suolo senza la minima considerazione dell’equilibrio dell’ecosistema – con cementificazioni selvagge e abusivismo diffuso – negli ultimi decenni ha reso il nostro territorio assai fragile, così che ad ogni acquazzone torniamo a parlare di tragedie. La frittata, però, è ormai fatta: un decimo del suolo italiano ha un’elevata criticità idrogeologica e quasi 9 comuni su 10 sono classificati ad alto rischio.
Ora, proprio perché prevenire è meglio che curare (con interventi postumi e tardivi), invece di tagliare i fondi per il rischio idrogeologico (da 551 a 84 milioni tra il 2009 e il 2012) sarebbe il caso di predisporre un grande piano di investimenti per il riassetto del territorio, in cui coinvolgere i privati con il project financing, ma soprattutto l’Europa. Perché i soldi, prima, non ci sono mai, ma dopo si spendono moltiplicati.
Ogni anno queste calamità ci costano in media 2 miliardi. Il 68% delle frane europee si verifica in Italia, ma siccome analoghi problemi, chi più chi meno, ci sono anche in tutti gli altri paesi Ue, ecco che dovremmo immaginare l’esclusione dai parametri Ue di investimenti che, oltre a salvare vite umane, patrimonio ambientale, centri abitati e zone industriali, sarebbero in grado di stimolare l’economia, creando lavoro e reddito diretto e indiretto (per esempio il turismo). Insomma, un piano federale di investimenti con cui l’Europa testimonierebbe la per la prima volta la propria esistenza unitaria, al di là delle imposizioni del rigore finanziario. Sento già l’obiezione: si tratta di un’iniziativa keynesiana. Si, e allora?
Ma in attesa che l’Europa faccia l’Europa, l’Italia può, singolarmente e nell’immediato, fare alcune cose. La prima e più importante delle quali è l’introduzione di un’assicurazione obbligatoria sui rischi catastrofali per le case, che costerebbe ai proprietari in media 1 euro al metro quadro ma che permetterebbe un risparmio di 3,5 miliardi l’anno. Soldi che finiscono comunque sul conto degli italiani, nella loro veste di contribuenti. Se perfino il Messico – terra dei Maya – ha attivato la sua brava polizza anti-catastrofi, non è forse il caso di smetterla di invocare la natura cinica e meschina e il governo ladro, e cominciare a rendere la terra sotto i nostri piedi un poco più stabile? (twitter @ecisnetto)
Perché se è vero che le calamità naturali ci sono sempre state nella storia dell’umanità, è anche vero che lo sfruttamento del suolo senza la minima considerazione dell’equilibrio dell’ecosistema – con cementificazioni selvagge e abusivismo diffuso – negli ultimi decenni ha reso il nostro territorio assai fragile, così che ad ogni acquazzone torniamo a parlare di tragedie. La frittata, però, è ormai fatta: un decimo del suolo italiano ha un’elevata criticità idrogeologica e quasi 9 comuni su 10 sono classificati ad alto rischio.
Ora, proprio perché prevenire è meglio che curare (con interventi postumi e tardivi), invece di tagliare i fondi per il rischio idrogeologico (da 551 a 84 milioni tra il 2009 e il 2012) sarebbe il caso di predisporre un grande piano di investimenti per il riassetto del territorio, in cui coinvolgere i privati con il project financing, ma soprattutto l’Europa. Perché i soldi, prima, non ci sono mai, ma dopo si spendono moltiplicati.
Ogni anno queste calamità ci costano in media 2 miliardi. Il 68% delle frane europee si verifica in Italia, ma siccome analoghi problemi, chi più chi meno, ci sono anche in tutti gli altri paesi Ue, ecco che dovremmo immaginare l’esclusione dai parametri Ue di investimenti che, oltre a salvare vite umane, patrimonio ambientale, centri abitati e zone industriali, sarebbero in grado di stimolare l’economia, creando lavoro e reddito diretto e indiretto (per esempio il turismo). Insomma, un piano federale di investimenti con cui l’Europa testimonierebbe la per la prima volta la propria esistenza unitaria, al di là delle imposizioni del rigore finanziario. Sento già l’obiezione: si tratta di un’iniziativa keynesiana. Si, e allora?
Ma in attesa che l’Europa faccia l’Europa, l’Italia può, singolarmente e nell’immediato, fare alcune cose. La prima e più importante delle quali è l’introduzione di un’assicurazione obbligatoria sui rischi catastrofali per le case, che costerebbe ai proprietari in media 1 euro al metro quadro ma che permetterebbe un risparmio di 3,5 miliardi l’anno. Soldi che finiscono comunque sul conto degli italiani, nella loro veste di contribuenti. Se perfino il Messico – terra dei Maya – ha attivato la sua brava polizza anti-catastrofi, non è forse il caso di smetterla di invocare la natura cinica e meschina e il governo ladro, e cominciare a rendere la terra sotto i nostri piedi un poco più stabile? (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.