Impariamo dalla Germania!
Senza non si può
Quello che manca in Italia è un piano di politica industrialedi Enrico Cisnetto - 14 gennaio 2011
Chi oggi plaude alla “cura Marchionne” usando come riferimento il buon esito del “caso Germania”, commette più errori in un colpo solo. Il primo è politico. Ammesso (e non concesso, almeno non del tutto) che ci sia una correlazione tra il felice stato di salute del modello tedesco di sviluppo e il “metodo Marchionne”, ciò che comunque manca nel nostro caso è il ruolo, in Germania decisivo, della politica.
Infatti, l’alta produttività dell’industria manifatturiera tedesca, auto compresa, e quindi la straordinaria capacità di esportare che pone la Germania al vertice dell’interscambio mondiale, non sono figlie delle scelte illuminate di qualche imprenditore o manager, bensì di una precisa scelta strategica assunta prima dall’Spd – e in particolare al cancelliere Gerhard Schröder, che ha guidato il paese dal 1998 al 2005 – e poi dalla Grosse Koalition della signora Merkel.
I governi tedeschi, una volta capito cosa stava accadendo all’economia mondiale per effetto della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica (avvento dell’economia della conoscenza), hanno avviato e favorito una trasformazione del capitalismo renano che fosse una risposta alla sfida che i paesi emergenti, specialmente asiatici, portavano sul terreno della competizione tra produzioni industriali. Schröder capì che bisognava delocalizzare ad Est, laddove c’erano condizioni non dissimili da quelle asiatiche, le produzioni a più basso valore aggiunto, nelle quali il costo del lavoro era decisivo e che erano prevalentemente concentrate in aziende di piccole dimensioni. Viceversa, favorì gli investimenti nelle imprese più grandi, con produzioni meno labour intensive e a maggiore contenuto di alta tecnologia.
Quella scelta fece (consapevolmente) 5 milioni di disoccupati, ma fu lungimirante. Perché quello era il prezzo pagato ad una trasformazione che ora sta dando risultati straordinari. Tuttavia, nel breve i disoccupati furono anche un prezzo elettorale che Schröder e l’Spd dovettero pagare. Ma la Merkel assicurò una continuità sostanziale alle scelte fatte dai socialdemocratici attraverso un governo di Grande Coalizione che ha avuto il merito di completare quel processo di trasformazione dell’economia che oggi consente alla Germania di chiudere il 2010 con un incremento del suo pil del 3,7% (contro l’1,7% medio di Eurolandia e l’1% dell’Italia). La Grande Crisi mondiale iniziata nel 2007 ha poi costretto i democristiani tedeschi ad abbandonare l’accordo con i socialdemocratici, ma senza che questo abbia significato un cambiamento significativo del percorso iniziato da Schröder e poi proseguito nelle due fasi della Merkel.
Il risultato di tutto questo è stato, appunto, l’aver messo le premesse, una volta finita la recessione planetaria, di rilanciare la Germania non solo come prima economia europea, ma come principale paese esportatore del mondo. E senza che fossero messi a rischio i conti pubblici, anzi.
In tutto questo hanno pesato relazioni industriali più mature, fatte di maggiore contrattazione aziendale, di più flessibilità, di meno assenteismo e di maggiore produttività oraria? Certo che sì, e senza che ci sia stato scontro sociale. Si dirà: ma in Germania l’equivalente della Fiom non c’è. Vero. Ma non c’è nemmeno l’equivalente di Marchionne, e le due cose si tengono. Tuttavia, hanno pesato anche altri due fattori decisivi: la quantità di investimenti realizzati – con il concorso decisivo dello Stato – mentre da noi sono crollati quelli pubblici (-20% nel primo semestre 2010) e si sono molto rarefatti quelli privati; la capacità di stare sul mercato con prodotti innovativi, oltre che dal buon rapporto qualità-prezzo, e questo in Italia vale per molte imprese medie ma non certo per la Fiat, che ha perso quote di mercato doppie alla caduta media dei consumi.
Ma in termini di sistema economico, in Germania la produttività è aumentata non solo nel settore manifatturiero, ma anche e soprattutto in quello dei servizi (che non è oggetto, se non marginalmente, di possibile delocalizzazione). E siccome esso pesa, là come da noi, per il 70% del pil, si capisce come si tratti di cosa decisiva, specie se si considerano quei servizi ad alto valore aggiunto che sono indispensabili per avere una buona manifattura.
In Italia, invece, nel terziario si annidano sia l’inefficienza e gli sprechi della pubblica amministrazione, sia l’arretratezza dell’ITC, sia la fragilità di altri servizi, a cominciare da trasporti e logistica (perché risentono della mancanza di infrastrutture).
Dunque quello che manca è un piano di politica industriale, che poi altro non è che un “piano Paese”. Cioè proprio quello che i fans liberisti di Marchionne rifiutano al grido “vate retro Keynes” e i fans della Fiom vorrebbero fosse puro statalismo assistenziale. Due opposte ideologie che sono state, e continuano ad essere, la nostra disgrazia. E che in Germania, guarda caso, non hanno cittadinanza.
Infatti, l’alta produttività dell’industria manifatturiera tedesca, auto compresa, e quindi la straordinaria capacità di esportare che pone la Germania al vertice dell’interscambio mondiale, non sono figlie delle scelte illuminate di qualche imprenditore o manager, bensì di una precisa scelta strategica assunta prima dall’Spd – e in particolare al cancelliere Gerhard Schröder, che ha guidato il paese dal 1998 al 2005 – e poi dalla Grosse Koalition della signora Merkel.
I governi tedeschi, una volta capito cosa stava accadendo all’economia mondiale per effetto della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica (avvento dell’economia della conoscenza), hanno avviato e favorito una trasformazione del capitalismo renano che fosse una risposta alla sfida che i paesi emergenti, specialmente asiatici, portavano sul terreno della competizione tra produzioni industriali. Schröder capì che bisognava delocalizzare ad Est, laddove c’erano condizioni non dissimili da quelle asiatiche, le produzioni a più basso valore aggiunto, nelle quali il costo del lavoro era decisivo e che erano prevalentemente concentrate in aziende di piccole dimensioni. Viceversa, favorì gli investimenti nelle imprese più grandi, con produzioni meno labour intensive e a maggiore contenuto di alta tecnologia.
Quella scelta fece (consapevolmente) 5 milioni di disoccupati, ma fu lungimirante. Perché quello era il prezzo pagato ad una trasformazione che ora sta dando risultati straordinari. Tuttavia, nel breve i disoccupati furono anche un prezzo elettorale che Schröder e l’Spd dovettero pagare. Ma la Merkel assicurò una continuità sostanziale alle scelte fatte dai socialdemocratici attraverso un governo di Grande Coalizione che ha avuto il merito di completare quel processo di trasformazione dell’economia che oggi consente alla Germania di chiudere il 2010 con un incremento del suo pil del 3,7% (contro l’1,7% medio di Eurolandia e l’1% dell’Italia). La Grande Crisi mondiale iniziata nel 2007 ha poi costretto i democristiani tedeschi ad abbandonare l’accordo con i socialdemocratici, ma senza che questo abbia significato un cambiamento significativo del percorso iniziato da Schröder e poi proseguito nelle due fasi della Merkel.
Il risultato di tutto questo è stato, appunto, l’aver messo le premesse, una volta finita la recessione planetaria, di rilanciare la Germania non solo come prima economia europea, ma come principale paese esportatore del mondo. E senza che fossero messi a rischio i conti pubblici, anzi.
In tutto questo hanno pesato relazioni industriali più mature, fatte di maggiore contrattazione aziendale, di più flessibilità, di meno assenteismo e di maggiore produttività oraria? Certo che sì, e senza che ci sia stato scontro sociale. Si dirà: ma in Germania l’equivalente della Fiom non c’è. Vero. Ma non c’è nemmeno l’equivalente di Marchionne, e le due cose si tengono. Tuttavia, hanno pesato anche altri due fattori decisivi: la quantità di investimenti realizzati – con il concorso decisivo dello Stato – mentre da noi sono crollati quelli pubblici (-20% nel primo semestre 2010) e si sono molto rarefatti quelli privati; la capacità di stare sul mercato con prodotti innovativi, oltre che dal buon rapporto qualità-prezzo, e questo in Italia vale per molte imprese medie ma non certo per la Fiat, che ha perso quote di mercato doppie alla caduta media dei consumi.
Ma in termini di sistema economico, in Germania la produttività è aumentata non solo nel settore manifatturiero, ma anche e soprattutto in quello dei servizi (che non è oggetto, se non marginalmente, di possibile delocalizzazione). E siccome esso pesa, là come da noi, per il 70% del pil, si capisce come si tratti di cosa decisiva, specie se si considerano quei servizi ad alto valore aggiunto che sono indispensabili per avere una buona manifattura.
In Italia, invece, nel terziario si annidano sia l’inefficienza e gli sprechi della pubblica amministrazione, sia l’arretratezza dell’ITC, sia la fragilità di altri servizi, a cominciare da trasporti e logistica (perché risentono della mancanza di infrastrutture).
Dunque quello che manca è un piano di politica industriale, che poi altro non è che un “piano Paese”. Cioè proprio quello che i fans liberisti di Marchionne rifiutano al grido “vate retro Keynes” e i fans della Fiom vorrebbero fosse puro statalismo assistenziale. Due opposte ideologie che sono state, e continuano ad essere, la nostra disgrazia. E che in Germania, guarda caso, non hanno cittadinanza.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.