Il potere illimitato del Colle
Saluti alla Costituzione
Napolitano: una firma negata al vecchio governo ma ottenuta oggi dal nuovodi Davide Giacalone - 24 gennaio 2012
C’era una volta un re, di cui gli italiani fecero democraticamente e volentieri a meno. Fecero bene. Quel re, però, non sognava neanche di avere i poteri di cui oggi dispone l’uomo del Colle. Il peso del Quirinale è maggiore oggi di quando l’inquilino era re e imperatore. Tutto bene, se così disponesse la Costituzione, di cui lo stesso presidente dovrebbe essere garante. Ma non è così: quel potere s’è espanso ben oltre i limiti costituzionali. Quello presidenziale è, nella nostra Carta, un potere potenzialmente elastico, ora giunto ad un grado estremo di tensione. Ciò preoccupa in sé, ma diventa pericoloso se accompagnato da generale indifferenza, silenzio, conformismo. C’è una scuola, politica e culturale, che afferma l’immutabilità della Costituzione. Quella scuola tace, nel mentre la si riduce in coriandoli. Quindi parliamo noi. Mi daranno del teppista, ma poco me ne cale.
Il decreto legge sulle “liberalizzazioni” recherà in calce la firma di Giorgio Napolitano, il quale disse che non avrebbe mai più firmato decreti disomogenei e non effettivamente urgenti. Porterà la firma di quel presidente della Repubblica che la negò al precedente governo, quando questo si proponeva non di usarla per regolare il futuro, ma per far fronte alla crisi del debito e alle richieste pressanti che ci venivano dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea. Allora il Quirinale sostenne che c’era già la manovra d’aggiustamento, ritenendola sufficiente, e che, pertanto, nessuna urgenza avevano altre misure. Le chiedeva l’Unione europea? Se proprio voleva chiederle, avrebbe dovuto chiederle a lui. In quel momento (novembre scorso) la conseguenza politica era evidente: il governo in carica avrebbe portato all’approvazione della manovra, poi, senza che il Parlamento l’avesse mai sfiduciato, sarebbe stato sostituito. Con il nuovo capo dell’esecutivo già pronto e nominato. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Oggi firma. Lasciamo perdere che in quel decreto le “liberalizzazioni” non ci sono, essendo, semmai, delle riregolazioni. Lo possiamo dire noi, che le liberalizzazioni le chiedevamo e le chiediamo, non è abilitato a sostenerlo chi non è stato capace di farle. Mai dimenticare che il punto di partenza di questa involuzione è il fallimento politico del centro destra. Firma, comunque, un decreto non solo ampiamente disomogeneo, ma contenente (anche) misure non immediatamente operative, bensì indicazioni programmatiche e deleghe ad altri poteri. Il Colle di oggi, quindi, si attiene ad una dottrina opposta a quella adottata in precedenza. Non basta, perché dal Quirinale si lavora attivamente alla riforma del sistema elettorale, utilizzando uno spazio politico aperto dal rigetto dei referendum, operato (giustamente) dalla Corte costituzionale. Riforma che ci vuole, come qui sosteniamo da molto tempo, che i due grossi partiti devono fare sulla base di un accordo esplicito, se non vogliono essere seppelliti dal governo Monti, ma che diventa singolare se le consultazioni e la mediazione sono a cura di chi non ha titoli costituzionali.
In altre parole: il sistema elettorale nuovo finisce con l’accompagnare un rivolgimento costituzionale di fatto. Ed è un colpo di mano. Un colpo allo Stato. Neanche questo basta, perché il presidente della Repubblica prende nelle sue mani un procedimento legislativo che gli deve essere estraneo, i cui effetti si vedranno alle prossime elezioni, che sono anche quelle che insedieranno il Parlamento il cui primo compito sarà quello di eleggere il presidente della Repubblica. Il successore. O il continuatore? La partita è delicatissima, talché non si deve essere troppo delicati e si deve avere il coraggio delle parole chiare: se servisse a rieleggere Napolitano sarebbe una botta micidiale, sarebbe la fine della Costituzione. Lo so, tutti dicono il contrario. C’è una gara a chi scrive meglio l’elogio del Colle, ossequiando il grande equilibrio politico di chi ha militato per una vita in un partito che reclamava l’avvento del socialismo reale, e il grande spirito europeista di chi è stato, per una vita, fra quanti lavoravano contro l’Europa (due momenti decisivi: il serpente monetario e gli euromissili, due paraggi che videro partecipe la sinistra democratica europea e avversari i comunisti italiani, fra i quali Napolitano). C’è una gara a chi argomenta meglio il sano valore politico di un governo che commissaria la democrazia e riduce i grossi partiti a ostaggi. Ma è una gara fra impotenti, bolliti e vigliacchi. E’ una gara fra responsabili dell’orrenda situazione in cui ci troviamo. Fra quanti preferiscono soccombere e cedere sovranità, piuttosto che fare i conti con le proprie responsabilità. Le loro colpe, però, non devono divenire alibi per distruggere le basi costituzionali della nostra vita collettiva. Per quel che conta (poco), mi preme far sapere che c’è chi ancora conserva memoria del dettato costituzionale e vede il pericolo di una democrazia che misura il consenso con gli applausi. Finendo eterodiretta.
Il decreto legge sulle “liberalizzazioni” recherà in calce la firma di Giorgio Napolitano, il quale disse che non avrebbe mai più firmato decreti disomogenei e non effettivamente urgenti. Porterà la firma di quel presidente della Repubblica che la negò al precedente governo, quando questo si proponeva non di usarla per regolare il futuro, ma per far fronte alla crisi del debito e alle richieste pressanti che ci venivano dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea. Allora il Quirinale sostenne che c’era già la manovra d’aggiustamento, ritenendola sufficiente, e che, pertanto, nessuna urgenza avevano altre misure. Le chiedeva l’Unione europea? Se proprio voleva chiederle, avrebbe dovuto chiederle a lui. In quel momento (novembre scorso) la conseguenza politica era evidente: il governo in carica avrebbe portato all’approvazione della manovra, poi, senza che il Parlamento l’avesse mai sfiduciato, sarebbe stato sostituito. Con il nuovo capo dell’esecutivo già pronto e nominato. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Oggi firma. Lasciamo perdere che in quel decreto le “liberalizzazioni” non ci sono, essendo, semmai, delle riregolazioni. Lo possiamo dire noi, che le liberalizzazioni le chiedevamo e le chiediamo, non è abilitato a sostenerlo chi non è stato capace di farle. Mai dimenticare che il punto di partenza di questa involuzione è il fallimento politico del centro destra. Firma, comunque, un decreto non solo ampiamente disomogeneo, ma contenente (anche) misure non immediatamente operative, bensì indicazioni programmatiche e deleghe ad altri poteri. Il Colle di oggi, quindi, si attiene ad una dottrina opposta a quella adottata in precedenza. Non basta, perché dal Quirinale si lavora attivamente alla riforma del sistema elettorale, utilizzando uno spazio politico aperto dal rigetto dei referendum, operato (giustamente) dalla Corte costituzionale. Riforma che ci vuole, come qui sosteniamo da molto tempo, che i due grossi partiti devono fare sulla base di un accordo esplicito, se non vogliono essere seppelliti dal governo Monti, ma che diventa singolare se le consultazioni e la mediazione sono a cura di chi non ha titoli costituzionali.
In altre parole: il sistema elettorale nuovo finisce con l’accompagnare un rivolgimento costituzionale di fatto. Ed è un colpo di mano. Un colpo allo Stato. Neanche questo basta, perché il presidente della Repubblica prende nelle sue mani un procedimento legislativo che gli deve essere estraneo, i cui effetti si vedranno alle prossime elezioni, che sono anche quelle che insedieranno il Parlamento il cui primo compito sarà quello di eleggere il presidente della Repubblica. Il successore. O il continuatore? La partita è delicatissima, talché non si deve essere troppo delicati e si deve avere il coraggio delle parole chiare: se servisse a rieleggere Napolitano sarebbe una botta micidiale, sarebbe la fine della Costituzione. Lo so, tutti dicono il contrario. C’è una gara a chi scrive meglio l’elogio del Colle, ossequiando il grande equilibrio politico di chi ha militato per una vita in un partito che reclamava l’avvento del socialismo reale, e il grande spirito europeista di chi è stato, per una vita, fra quanti lavoravano contro l’Europa (due momenti decisivi: il serpente monetario e gli euromissili, due paraggi che videro partecipe la sinistra democratica europea e avversari i comunisti italiani, fra i quali Napolitano). C’è una gara a chi argomenta meglio il sano valore politico di un governo che commissaria la democrazia e riduce i grossi partiti a ostaggi. Ma è una gara fra impotenti, bolliti e vigliacchi. E’ una gara fra responsabili dell’orrenda situazione in cui ci troviamo. Fra quanti preferiscono soccombere e cedere sovranità, piuttosto che fare i conti con le proprie responsabilità. Le loro colpe, però, non devono divenire alibi per distruggere le basi costituzionali della nostra vita collettiva. Per quel che conta (poco), mi preme far sapere che c’è chi ancora conserva memoria del dettato costituzionale e vede il pericolo di una democrazia che misura il consenso con gli applausi. Finendo eterodiretta.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.