Il paradosso italiano
Rovina giudiziaria
Quel che altrove arricchisce qui ti rovinadi Davide Giacalone - 05 aprile 2012
Quel che nel mondo ha successo in Italia ti porta a subire un processo penale. Quel che altrove arricchisce qui ti rovina. L’innovatore altrove acclamato da noi viene portato alla sbarra e fatto fallire. Quando facciamo i conti con le nostre debolezze e arretratezze dobbiamo sempre tornare ad uno dei mostri che divorano vita e ricchezza: la malagiustizia.
L’e-commerce, ovvero la possibilità di fare acquisti e transazioni on line, via internet, è in continua crescita, nel mondo e in Italia. Nel Paese che dovrebbe essere il più turisticamente evoluto, perché il più paesaggisticamente e artisticamente ricco, però, molti dei connazionali che acquistano vacanze e viaggi lo fanno passando per piattaforme estere, il che significa portare fuori parte consistente del valore aggiunto. Inutile maledire la sorte, perché si tratta di una colpa. Per capirlo si guardi quel che è successo a Fulvio Rinaldi.
Fondatore di YouStore è stato un anticipatore di fenomeni come Groupon, oggi conosciuto e diffuso anche in Italia. Il guaio di Rinaldi, però, è stato quello di essere italiano. YouStore era un canale di vendite che metteva a disposizione dei clienti la possibilità di fare acquisti a prezzi scontati, sia operando via rete che recandosi fisicamente nei luoghi convenzionati. Il punto di partenza era una tessera prepagata, denominata Cartablu, mediante la quale si potevano chiudere le transazioni. Il sistema funzionava, portava benefici sia ai clienti che ai commercianti, non costringeva nessuno ad alcunché, ma apriva la via a crescenti opportunità. Il primo a mettersi di traverso fu un pubblico ministero operante in Sardegna, che accusò l’iniziativa d’essere una truffa, con annesse perquisizioni della sede operativa, che si trovava a Roma. La notizia, naturalmente, non restò riservata e, come era evidente, quanti avevano versato dei soldi (che restavano nella propria disponibilità) cominciarono a preoccuparsi. Nel 2006 intervenne la procura di Roma, ipotizzando i reati di “raccolta abusiva di risparmio” e “abusiva attività bancaria”. Se tale criterio dovesse applicarsi a tutte le formule di prepagato ne vedremmo delle belle, cancellando interi settori di mercato. Quella volta, però, toccò solo a Rinaldi, che già era partito da quattro anni.
Dopo tre anni, nel 2009, arriva il fallimento. Senza che nessuno dei clienti abbia perso un centesimo o che l’imprenditore-innovatore si sia illecitamente arricchito. I suoi proventi derivavano da percentuali riscosse sugli acquisti, posto che prezzo e qualità erano convenienti e l’aumento del giro d’affari allettava i venditori. Ma dopo tre anni di torchio giudiziario l’impresa schiatta. La giustizia si prende sei comodi anni, al termine dei quali non solo assolve l’imputato, ma sostiene, nelle motivazioni della sentenza, che la sua era una gran bella iniziativa, conveniente per tutti. Peccato sia stata massacrata e annientata, concedendo ai concorrenti stranieri un incolmabile vantaggio. Sicché vale la pena che ciascuno rifletta, amaramente, su quel che è successo: non solo l’imprenditore italiano combatte senza avere l’arma di far entrare capitale di rischio nella sua azienda, non solo gli si chiude anche il credito, ma lo si descrive come un delinquente e gli s’infliggono sei anni d’inquisizione. Al termine dei quali è raso al suolo. In queste condizioni dovrebbe competere con chi vive in ecosistemi favorevoli, può disporre di fondi che scommettono sull’impresa ed è osannato dai mezzi di comunicazione. Da noi ci si occupa di lui per diffamarlo, mentre la sua innocenza è notizia che interessa solo quei quattro perversi che ancora credono possa esistere la giustizia. Postilla, ovvia: chi lo ha inquisito farà carriera, mentre la sua è finita. Oggi fa il consulente e ha un messaggio chiaro, per i giovani che vogliano provare ad affrontare sfide innovative: andate via dall’Italia. E su questo non mi sento di concordare con lui: è vero, andare via è un’eventualità da prendere in considerazione, ma solo dopo avere provato a cacciare via un sistema che umilia il merito e premia la gestione burocratico-sterminatrice della giustizia. Aggiungo un dettaglio: cosa cavolo stia succedendo circa l’articolo 18 lo capiamo solo in idioma italico, mentre una storia come questa si legge e capisce in ogni lingua del globo, risultando sufficiente per star lontani da un Paese di matti. Riterrei utile che qualcuno chiami Rinaldi e gli chieda scusa, in mondovisione.
Fondatore di YouStore è stato un anticipatore di fenomeni come Groupon, oggi conosciuto e diffuso anche in Italia. Il guaio di Rinaldi, però, è stato quello di essere italiano. YouStore era un canale di vendite che metteva a disposizione dei clienti la possibilità di fare acquisti a prezzi scontati, sia operando via rete che recandosi fisicamente nei luoghi convenzionati. Il punto di partenza era una tessera prepagata, denominata Cartablu, mediante la quale si potevano chiudere le transazioni. Il sistema funzionava, portava benefici sia ai clienti che ai commercianti, non costringeva nessuno ad alcunché, ma apriva la via a crescenti opportunità. Il primo a mettersi di traverso fu un pubblico ministero operante in Sardegna, che accusò l’iniziativa d’essere una truffa, con annesse perquisizioni della sede operativa, che si trovava a Roma. La notizia, naturalmente, non restò riservata e, come era evidente, quanti avevano versato dei soldi (che restavano nella propria disponibilità) cominciarono a preoccuparsi. Nel 2006 intervenne la procura di Roma, ipotizzando i reati di “raccolta abusiva di risparmio” e “abusiva attività bancaria”. Se tale criterio dovesse applicarsi a tutte le formule di prepagato ne vedremmo delle belle, cancellando interi settori di mercato. Quella volta, però, toccò solo a Rinaldi, che già era partito da quattro anni.
Dopo tre anni, nel 2009, arriva il fallimento. Senza che nessuno dei clienti abbia perso un centesimo o che l’imprenditore-innovatore si sia illecitamente arricchito. I suoi proventi derivavano da percentuali riscosse sugli acquisti, posto che prezzo e qualità erano convenienti e l’aumento del giro d’affari allettava i venditori. Ma dopo tre anni di torchio giudiziario l’impresa schiatta. La giustizia si prende sei comodi anni, al termine dei quali non solo assolve l’imputato, ma sostiene, nelle motivazioni della sentenza, che la sua era una gran bella iniziativa, conveniente per tutti. Peccato sia stata massacrata e annientata, concedendo ai concorrenti stranieri un incolmabile vantaggio. Sicché vale la pena che ciascuno rifletta, amaramente, su quel che è successo: non solo l’imprenditore italiano combatte senza avere l’arma di far entrare capitale di rischio nella sua azienda, non solo gli si chiude anche il credito, ma lo si descrive come un delinquente e gli s’infliggono sei anni d’inquisizione. Al termine dei quali è raso al suolo. In queste condizioni dovrebbe competere con chi vive in ecosistemi favorevoli, può disporre di fondi che scommettono sull’impresa ed è osannato dai mezzi di comunicazione. Da noi ci si occupa di lui per diffamarlo, mentre la sua innocenza è notizia che interessa solo quei quattro perversi che ancora credono possa esistere la giustizia. Postilla, ovvia: chi lo ha inquisito farà carriera, mentre la sua è finita. Oggi fa il consulente e ha un messaggio chiaro, per i giovani che vogliano provare ad affrontare sfide innovative: andate via dall’Italia. E su questo non mi sento di concordare con lui: è vero, andare via è un’eventualità da prendere in considerazione, ma solo dopo avere provato a cacciare via un sistema che umilia il merito e premia la gestione burocratico-sterminatrice della giustizia. Aggiungo un dettaglio: cosa cavolo stia succedendo circa l’articolo 18 lo capiamo solo in idioma italico, mentre una storia come questa si legge e capisce in ogni lingua del globo, risultando sufficiente per star lontani da un Paese di matti. Riterrei utile che qualcuno chiami Rinaldi e gli chieda scusa, in mondovisione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.