Export ultima speranza
Riserva d'ossigeno
L'euro forte e lo scarso sostegno nazionale rischiano di bruciare l'ultima risorsa italianadi Enrico Cisnetto - 28 gennaio 2014
In questi anni di crisi non siamo falliti solo perché il nostro export ha brillato più di tutti in Europa, pompando salvifico ossigeno nei moribondi polmoni dell’economia italiana. Ma non si può vivere di rendita. Anche perché, a novembre le esportazioni sono calate dell’1,9% sul mese precedente e del 3,4% rispetto al novembre 2012, portando a tre le mensilità negative dell’anno (oltre a quelle di febbraio e luglio). E non deve ingannare il +7,1% congiunturale di dicembre, che riflette il recupero dopo la precedente contrazione e l’espansione tendenziale verso alcuni mercati, quali Stati Uniti (+17,3%) e il Mercosur (+11%). Ad una visione più ampia emerge, invece, una parabola discendente per il nostro export, rivelata da una anemica crescita di mezzo punto nell’ultimo trimestre 2013 e dell’1,3% su base annua. Dati certamente positivi, ma infinitesimali rispetto al +12% del 2011 e al +4,3% del 2012.
Anche perché, al di là della congiuntura, le nostre esportazioni verso l’Unione europea – attualmente in leggera flessione – soffriranno la sostanziale stagnazione economica continentale e la politica dei bassi redditi, e quindi del contenimento dei consumi interni, della Germania. E, nello stesso tempo, l’export extra-Ue è minacciato da un euro troppo (e ingiustificatamente) forte e dalla progressiva riduzione delle politiche monetarie ultraespansive delle banche centrali di tutto il mondo (in particolare Usa, Giappone e Cina). E siccome l’export extraeuropeo è l’unica miniera potenzialmente infinita (un mercato di 6 miliardi di persone con la classe media e i nuovi ricchi in aumento esponenziale) che noi abbiamo, c’è da preoccuparsi. Infatti, se si confronta la curva del commercio mondiale, che sale in modo stabile e costante, con quella dell’export italiano nel 2013, se ne ricavano prospettive davvero misere. Sace aveva previsto un incremento del 6,5%, per un fatturato complessivo di 503 miliardi. Il risultato finale dovrebbe essere intorno ai 380, con una crescita dell’1,2%. Non ci siamo. Soprattutto considerato che, come dice Confindustria, per uscire dalla recessione e riprendere la via della crescita, l’Italia avrebbe bisogno di incrementi dell’ordine del 9% annuo.
Perché se anche il “made in Italy” è sinonimo di roba buona e preziosa, se nelle nostre esportazioni sono incorporati semilavorati che ancora importiamo a condizioni di convenienza, se ci sono strumenti finanziari come Simest e Sace che funzionano egregiamente, e se abbiamo in programma l’Expo, non si può non tener conto di alcune osservazioni fondamentali sull’ecosistema produttivo nazionale. La prima viene dalla Commissione Ue, che descrive le imprese italiane come scarsamente profilate sull’hi-tech, con un livello di specializzazione “simile a quello cinese”. Il secondo problema è dimensionale: il fatturato estero è in capo ad oltre 200 mila imprese, anche se la metà è fatto da meno di un migliaio di aziende che superano i 50 milioni. Per cui si tratta di piccole realtà che mediamente esportano poche migliaia di euro. Nella competizione globale, possiamo costruire la nostra posizione di forza su una realtà così polverizzata? E poi, certamente, le imprese che competono nel mondo odierno, concorrenziale e agguerrito, avrebbero bisogno che leggi e burocrazia italiane fossero d’aiuto, e non d’ostacolo. Perché se si brucia anche l’ultima riserva d’ossigeno… (twitter @ecisnetto)
Anche perché, al di là della congiuntura, le nostre esportazioni verso l’Unione europea – attualmente in leggera flessione – soffriranno la sostanziale stagnazione economica continentale e la politica dei bassi redditi, e quindi del contenimento dei consumi interni, della Germania. E, nello stesso tempo, l’export extra-Ue è minacciato da un euro troppo (e ingiustificatamente) forte e dalla progressiva riduzione delle politiche monetarie ultraespansive delle banche centrali di tutto il mondo (in particolare Usa, Giappone e Cina). E siccome l’export extraeuropeo è l’unica miniera potenzialmente infinita (un mercato di 6 miliardi di persone con la classe media e i nuovi ricchi in aumento esponenziale) che noi abbiamo, c’è da preoccuparsi. Infatti, se si confronta la curva del commercio mondiale, che sale in modo stabile e costante, con quella dell’export italiano nel 2013, se ne ricavano prospettive davvero misere. Sace aveva previsto un incremento del 6,5%, per un fatturato complessivo di 503 miliardi. Il risultato finale dovrebbe essere intorno ai 380, con una crescita dell’1,2%. Non ci siamo. Soprattutto considerato che, come dice Confindustria, per uscire dalla recessione e riprendere la via della crescita, l’Italia avrebbe bisogno di incrementi dell’ordine del 9% annuo.
Perché se anche il “made in Italy” è sinonimo di roba buona e preziosa, se nelle nostre esportazioni sono incorporati semilavorati che ancora importiamo a condizioni di convenienza, se ci sono strumenti finanziari come Simest e Sace che funzionano egregiamente, e se abbiamo in programma l’Expo, non si può non tener conto di alcune osservazioni fondamentali sull’ecosistema produttivo nazionale. La prima viene dalla Commissione Ue, che descrive le imprese italiane come scarsamente profilate sull’hi-tech, con un livello di specializzazione “simile a quello cinese”. Il secondo problema è dimensionale: il fatturato estero è in capo ad oltre 200 mila imprese, anche se la metà è fatto da meno di un migliaio di aziende che superano i 50 milioni. Per cui si tratta di piccole realtà che mediamente esportano poche migliaia di euro. Nella competizione globale, possiamo costruire la nostra posizione di forza su una realtà così polverizzata? E poi, certamente, le imprese che competono nel mondo odierno, concorrenziale e agguerrito, avrebbero bisogno che leggi e burocrazia italiane fossero d’aiuto, e non d’ostacolo. Perché se si brucia anche l’ultima riserva d’ossigeno… (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.