Il governo scopre la crisi: noi e l’Europa
Ricette diverse, purché si scelga
C’è una via continentale e una anglosassone, l’importante è avere le idee chiaredi Enrico Cisnetto - 16 maggio 2005
L’Italia è allo sbando. Navighiamo a vista privi di qualsiasi strategia di politica economica, mentre i nostri diretti concorrenti, europei e non, tengono ben saldo il timone delle rispettive economie. In questa situazione drammatica sarà impossibile uscire dalla fase di conclamata emergenza nella quale siamo impantanati (nel periodo 2001-2005 abbiamo avuto una crescita media del pil pari a 0,94% e anche gli ultimi dati Istat non lasciano ben sperare: -0,5% la crescita nel primo trimestre 2005) per problemi strutturali irrisolti, e veniamo surclassati da partner accorti e decisi – beati loro – che hanno saputo aggredire a denti stretti la recente crisi internazionale. La Germania e la Francia, soprattutto, hanno lavorato su loro stesse, riportando in auge il concetto di interesse nazionale. Alla faccia dell’europeismo di maniera sbandierato ai quattro venti dai nostri politici. Berlino ha compresso la domanda interna (negativa negli ultimi due anni), puntando decisamente sugli investimenti nelle esportazioni (salite dell’8,6% nel 2004 e sopra il 6% nel 2005), tanto da diventare oggi il primo fornitore globale. Parigi, inversamente, ha sostenuto i consumi attraverso politiche di bilancio, mantenendo ben viva l’economia (+2,5% il pil nel 2004 e +2% nel 2005) e scegliendo lo sforamento dei parametri del Patto di stabilità (anche per l’anno in corso il rapporto deficit-pil sarà, secondo il Fmi, superiore al 3%). E se è vero che Francia e Germania erano supportate da un sistema industriale solido e maturo, è altrettanto vero che in Italia, anziché sostenere la riconversione del nostro sciatto capitalismo verso produzioni ad alto contenuto tecnologico, e quindi più competitive, si è voltato lo sguardo altrove. Nascondendo i problemi dietro un deleterio ottimismo e volgari strumentalizzazioni, la nostra classe dirigente ha scelto di non scegliere, ricorrendo a ricette fasulle come taglio delle tasse e devolution. E ha mancato il bersaglio. Chi, invece, dandoci una bella lezione di pragmatismo, ha rilanciato l’economia attraverso modelli idealmente diversi da quelli “continentali” sono i paesi anglosassoni. L’Inghilterra, dopo anni di vacche magre, ha scelto, sotto la guida di Margaret Thatcher, la mission del sistema finanziario, ed oggi un Tony Blair di nuovo vincente raccoglie frutti preziosi. Grazie alla ristrutturazione di importanti comparti industriali e all’aumento conseguente delle esportazioni (previste dalla Commissione Ue al 6,3% nel 2005) oltre Manica vantano così una crescita tra le più spumeggianti d’Europa (+3,1% nel 2004, ancora +2,8% nel 2005 contro la stima dell’1,2% italiano). Mentre gli Stati Uniti hanno prima trasformato la propria economia da “analogica a digitale” – ed ora non soffrono minimamente la concorrenza cinese – e poi con una politica monetaria aggressiva, che ha sostenuto le capacità dell’export (+8,5% nel 2004 e +6,9% la previsione per il 2005) e pompato il deficit a livelli record, hanno scaricato scientemente oltreoceano i costi della ripresa (+4,4% il pil Usa nel 2004 e ancora +3,6 nel 2005). Continentali o anglosassoni, insomma, con le idee chiare si vince. Finché in Italia continuerà a prevalere il confuso immobilismo di questa politica, alla recessione non vi sarà rimedio.
L'articolo è stato pubblicato sul Messaggero del 15 maggio
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