Il problema è ricostruire il nostro capitalismo
Prima sviluppo, poi deregulation
Guido Rossi propone di cancellare i patti di sindacato, ma così si va contro la trasparenzadi Enrico Cisnetto - 01 marzo 2006
Tipico esempio di rimedio peggiore del male, la proposta (molto gettonata) di Guido Rossi di abolire i patti di sindacato, al cui fondo c’è l’idea che ci basterebbe importare un modello legislativo dall’estero per risolvere i problemi del nostro capitalismo. Magari, ma non è così: per modernizzare l’arcaico ci vuole altro. Ed è strano che l’avvocato Rossi non lo sappia, visto che ha scritto molti patti tra grandi azionisti, conquistandosi la fama di professionista di lusso.
Infatti, cancellare i patti di sindacato sarebbe soltanto un colpo alla trasparenza, visto che a quel punto gli azionisti di controllo userebbero tutta una serie di altri strumenti per concertare il loro comportamento, certo più pericolosi per il libero mercato: dalle scatole cinesi alle holding di diritto estero in uno dei tanti paradisi fiscali. Inoltre, sparirebbero tutti gli obblighi di comunicazione al mercato oggi imposti dalla legge Draghi, che prevede anche lo scioglimento dei patti di sindacato in caso di opa.
Ma la proposta di Rossi sarebbe anche dannosa per il modello specifico del capitalismo italiano, così lontano da quello anglo-americano, che si continua a prendere ad esempio a sproposito. Perché la storia di Stati Uniti e Gran Bretagna ci parla di un’imprenditoria matura, ricca di capitali, con innumerevoli società quotate e investitori autonomi come i fondi pensione che da noi chissà quanto ci metteranno a decollare. E allora, pensiamo davvero che eliminare i benefici del controllo e gli incentivi che portano alla formazione degli accordi tra azionisti, e aprire indiscriminatamente non alla concorrenza (sana) ma alla “guerra permanente” tra società solo scalabili (dagli stranieri), trasformerebbe un capitalismo popolato di poteri deboli in uno più moderno e forte? Purtroppo no. Anzi, ci porterebbe soltanto a vedere i pezzi migliori dell’industria e della finanza made in Italy finire in mano agli stranieri, così come abbiamo imparato a nostre spese con la Bnl e l’Antonveneta (e Guido Rossi ne sa qualcosa). Il nostro capitalismo non è un leone rampante e aggressivo a cui bisogna tagliare gli artigli, ma uno rachitico che si regge faticosamente in piedi. E se i patti di sindacato rappresentano la sua residua capacità di “fare sistema”, seppure in un’ottica puramente difensiva, allora ben vengano. Il nostro primo problema è sopravvivere alla nuova competizione globale, le “regole” dei sistemi forti sono un lusso che non possiamo permetterci. La sofisticazione legislativa va di pari passo con lo sviluppo del capitalismo, non lo anticipa. Dunque, prima di parlare di deregulation, sarebbe bene occuparci di sviluppo, altrimenti, rischiamo di avere bellissime regole e un mercato popolato di spettri.
Pubblicato sulla Sicilia del 26 febbraio 2006
Infatti, cancellare i patti di sindacato sarebbe soltanto un colpo alla trasparenza, visto che a quel punto gli azionisti di controllo userebbero tutta una serie di altri strumenti per concertare il loro comportamento, certo più pericolosi per il libero mercato: dalle scatole cinesi alle holding di diritto estero in uno dei tanti paradisi fiscali. Inoltre, sparirebbero tutti gli obblighi di comunicazione al mercato oggi imposti dalla legge Draghi, che prevede anche lo scioglimento dei patti di sindacato in caso di opa.
Ma la proposta di Rossi sarebbe anche dannosa per il modello specifico del capitalismo italiano, così lontano da quello anglo-americano, che si continua a prendere ad esempio a sproposito. Perché la storia di Stati Uniti e Gran Bretagna ci parla di un’imprenditoria matura, ricca di capitali, con innumerevoli società quotate e investitori autonomi come i fondi pensione che da noi chissà quanto ci metteranno a decollare. E allora, pensiamo davvero che eliminare i benefici del controllo e gli incentivi che portano alla formazione degli accordi tra azionisti, e aprire indiscriminatamente non alla concorrenza (sana) ma alla “guerra permanente” tra società solo scalabili (dagli stranieri), trasformerebbe un capitalismo popolato di poteri deboli in uno più moderno e forte? Purtroppo no. Anzi, ci porterebbe soltanto a vedere i pezzi migliori dell’industria e della finanza made in Italy finire in mano agli stranieri, così come abbiamo imparato a nostre spese con la Bnl e l’Antonveneta (e Guido Rossi ne sa qualcosa). Il nostro capitalismo non è un leone rampante e aggressivo a cui bisogna tagliare gli artigli, ma uno rachitico che si regge faticosamente in piedi. E se i patti di sindacato rappresentano la sua residua capacità di “fare sistema”, seppure in un’ottica puramente difensiva, allora ben vengano. Il nostro primo problema è sopravvivere alla nuova competizione globale, le “regole” dei sistemi forti sono un lusso che non possiamo permetterci. La sofisticazione legislativa va di pari passo con lo sviluppo del capitalismo, non lo anticipa. Dunque, prima di parlare di deregulation, sarebbe bene occuparci di sviluppo, altrimenti, rischiamo di avere bellissime regole e un mercato popolato di spettri.
Pubblicato sulla Sicilia del 26 febbraio 2006
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.