F35 e campagna elettorale
Populismo Pacifista
Perché le parole di Bersani sugli F35 sono in contraddizione con l'esistenza stessa delle Forze Armatedi Enrico Cisnetto - 25 gennaio 2013
La campagna elettorale, si sa, è la fiera delle bugie, dell’ipocrisia e della demagogia. Ma a tutto c’è un limite. Specie se si percorrono terreni minati come quello delle spese militari per la difesa, dove è facile mettere i piedi dove non si dovrebbe. Prendete il caso delle polemiche sollevate intorno all’ordine di acquisto di 90 aerei F35, i caccia a decollo verticale progettati dalla Lockeed e che, secondo il programma Joint Strike Fighter, verranno assemblati in Italia da un raggruppamento di 60 aziende nazionali capitanate da Alenia Aermacchi. A parte che molti di quelli che ora parlano di soldi sprecati o comunque di eccesso di spesa, a cominciare da Bersani, a suo tempo avevano approvato la decisione (l’accordo Italia-Usa del 2007 porta la firma di Lorenzo Forceri del Pd) e anche recentemente hanno respinto recenti ordini del giorno parlamentari che chiedevano la rescissione di quel contratto, ma ci sono almeno due motivi, uno di metodo e l’altro di merito, per considerare improvvida questa becera propaganda elettorale.
Partiamo dal metodo. È lecito definirsi pacifisti fino al punto di negare l’opportunità che il proprio paese disponga di Forze Armate, l’importante è dirlo con chiarezza e assumersi le relative responsabilità. Quello che non si può e non si deve fare è essere ambidestri, stare con l’esercito e dare l’ok alle sue missioni internazionali e nello stesso tempo dirsi contrari a certi armamenti per il loro costo. Un conto è opporsi agli F35 come a qualunque altro strumento di difesa, un altro è polemizzare sui cacciabombardieri o sui sottomarini (altro caso recente di esternazioni elettorali) perché richiedono investimenti pubblici. In molti, in questi giorni, hanno tenuto questo secondo comportamento, senza rendersi conto che alimentare il (facile) sentimento del disarmo espone i nostri soldati e il paese intero a pericoli enormi. Le Forze Armate si chiamano così perché devono essere dotate degli armamenti necessari per svolgere al meglio il proprio compito: inutile piangere se poi dovessero pagare il prezzo di non averle messe in condizione di rispondere alla sofisticazione tecnologica degli armamenti altrui. Senza contare che la loro dotazione non è figlia del capriccio di qualche “papavero” con le stellette, ma concordata in sede Nato, dove l’Italia ha assunto precisi impegni, sottoscritti dal governo e approvati dal parlamento.
E qui entriamo nel merito della questione F35. Il programma Jsf è datato 1997 (governo Prodi), serve al rinnovamento della nostra Aeronautica militare e in esso abbiamo già fatto significativi investimenti. In provincia di Novara, a Cameri, all’interno di una base della nostra aviazione, c’è un polo di assemblaggio e manutenzione che ha eguali solo negli Usa (dove i Jsf vengono progettati). Gli americani hanno deciso di condividere questo programma con l’Europa dopo che essa ha saputo imporsi con gli Eurofighter. Una stretta collaborazione che ha un duplice effetto positivo. Il primo è quello per cui le capacità tecnologiche vengono condivise, permettendo anche all’Italia di essere all’avanguardia. Il secondo è un rilevante vantaggio economico, sia perché parte della produzione viene effettuata in Italia, sia perché ci consente di partecipare ad un processo di specializzazione produttiva che comporta maggiore internazionalizzazione della nostra industria e acquisizione di nuove capacità manifatturiere. Ed è proprio “più ricerca e più sviluppo” che tutti invocano, ma che evidentemente in pochi sanno riconoscere e valorizzare.
I costi decisamente alti e oscillanti della progettazione e della produzione di questi velivoli di ultima generazione dipendono proprio dal fatto che la loro costruzione è sostanzialmente una novità, e pertanto suscettibile di imprevisti e variazioni. Ma è pianificato che diminuiranno via via che la tecnologica sarà consolidata, fino a scendere a 60 milioni di dollari dopo il cinquantacinquesimo esemplare. Noi ne avevamo ordinati 131, poi siamo scesi a 90: se ora dovessimo ridurne ulteriormente il numero finiremmo per pagarli unitariamente molti più cari. Chiudere tutto, poi, significherebbe buttare gli investimenti già fatti, mettere a rischio 10 mila posti di lavoro e ammazzare definitivamente il futuro già abbastanza compromesso di Finmeccanica, l’unica grande industria nazionale che maneggia alta tecnologia.
Resta affascinante (elettoralmente parlando) la tesi di chi chiede di tagliare i presunti 15 miliardi di costo degli F35? A parte che non esiste un simile contratto, ma c’è solo un programma che si sviluppa per tranche di ordini, comunque tirarsi indietro proprio mentre, di fronte alle nuove sfide della sicurezza globale, il mondo modifica le strategie difensive adottando armi sofisticate, in grado di combinare in un’unica piattaforma tutte le tecnologie utilizzabili – nello specifico: spiccate caratteristiche di bassa osservabilità con elevate prestazioni aerodinamiche, avanzatissimi sistemi avionici e di missione, armamenti di assoluta precisione, il tutto integrato con sistemi informativi di scambio dati da diverse fonti – significa evirarsi.
La sicurezza nazionale, interna ed esterna, da qui ai prossimi 30 anni deve essere progettata oggi, se non è già tardi. L’Italia non può esimersi. E deve farlo con i proprio alleati storici dell’Alleanza Atlantica: una garanzia da cui recedere oggi, per inseguire qualche voto in più, sarebbe un esiziale, imperdonabile errore.
Partiamo dal metodo. È lecito definirsi pacifisti fino al punto di negare l’opportunità che il proprio paese disponga di Forze Armate, l’importante è dirlo con chiarezza e assumersi le relative responsabilità. Quello che non si può e non si deve fare è essere ambidestri, stare con l’esercito e dare l’ok alle sue missioni internazionali e nello stesso tempo dirsi contrari a certi armamenti per il loro costo. Un conto è opporsi agli F35 come a qualunque altro strumento di difesa, un altro è polemizzare sui cacciabombardieri o sui sottomarini (altro caso recente di esternazioni elettorali) perché richiedono investimenti pubblici. In molti, in questi giorni, hanno tenuto questo secondo comportamento, senza rendersi conto che alimentare il (facile) sentimento del disarmo espone i nostri soldati e il paese intero a pericoli enormi. Le Forze Armate si chiamano così perché devono essere dotate degli armamenti necessari per svolgere al meglio il proprio compito: inutile piangere se poi dovessero pagare il prezzo di non averle messe in condizione di rispondere alla sofisticazione tecnologica degli armamenti altrui. Senza contare che la loro dotazione non è figlia del capriccio di qualche “papavero” con le stellette, ma concordata in sede Nato, dove l’Italia ha assunto precisi impegni, sottoscritti dal governo e approvati dal parlamento.
E qui entriamo nel merito della questione F35. Il programma Jsf è datato 1997 (governo Prodi), serve al rinnovamento della nostra Aeronautica militare e in esso abbiamo già fatto significativi investimenti. In provincia di Novara, a Cameri, all’interno di una base della nostra aviazione, c’è un polo di assemblaggio e manutenzione che ha eguali solo negli Usa (dove i Jsf vengono progettati). Gli americani hanno deciso di condividere questo programma con l’Europa dopo che essa ha saputo imporsi con gli Eurofighter. Una stretta collaborazione che ha un duplice effetto positivo. Il primo è quello per cui le capacità tecnologiche vengono condivise, permettendo anche all’Italia di essere all’avanguardia. Il secondo è un rilevante vantaggio economico, sia perché parte della produzione viene effettuata in Italia, sia perché ci consente di partecipare ad un processo di specializzazione produttiva che comporta maggiore internazionalizzazione della nostra industria e acquisizione di nuove capacità manifatturiere. Ed è proprio “più ricerca e più sviluppo” che tutti invocano, ma che evidentemente in pochi sanno riconoscere e valorizzare.
I costi decisamente alti e oscillanti della progettazione e della produzione di questi velivoli di ultima generazione dipendono proprio dal fatto che la loro costruzione è sostanzialmente una novità, e pertanto suscettibile di imprevisti e variazioni. Ma è pianificato che diminuiranno via via che la tecnologica sarà consolidata, fino a scendere a 60 milioni di dollari dopo il cinquantacinquesimo esemplare. Noi ne avevamo ordinati 131, poi siamo scesi a 90: se ora dovessimo ridurne ulteriormente il numero finiremmo per pagarli unitariamente molti più cari. Chiudere tutto, poi, significherebbe buttare gli investimenti già fatti, mettere a rischio 10 mila posti di lavoro e ammazzare definitivamente il futuro già abbastanza compromesso di Finmeccanica, l’unica grande industria nazionale che maneggia alta tecnologia.
Resta affascinante (elettoralmente parlando) la tesi di chi chiede di tagliare i presunti 15 miliardi di costo degli F35? A parte che non esiste un simile contratto, ma c’è solo un programma che si sviluppa per tranche di ordini, comunque tirarsi indietro proprio mentre, di fronte alle nuove sfide della sicurezza globale, il mondo modifica le strategie difensive adottando armi sofisticate, in grado di combinare in un’unica piattaforma tutte le tecnologie utilizzabili – nello specifico: spiccate caratteristiche di bassa osservabilità con elevate prestazioni aerodinamiche, avanzatissimi sistemi avionici e di missione, armamenti di assoluta precisione, il tutto integrato con sistemi informativi di scambio dati da diverse fonti – significa evirarsi.
La sicurezza nazionale, interna ed esterna, da qui ai prossimi 30 anni deve essere progettata oggi, se non è già tardi. L’Italia non può esimersi. E deve farlo con i proprio alleati storici dell’Alleanza Atlantica: una garanzia da cui recedere oggi, per inseguire qualche voto in più, sarebbe un esiziale, imperdonabile errore.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.