Per una nuova governance globale
Pittsburgh anno zero
I grandi della Terra ripartono dal G20. E lo fanno in una stagione votata al multilateralismodi Enrico Cisnetto - 25 settembre 2009
Il G20 come l’Onu? Il rischio c’è, e sarebbe bene evitarlo. E’ passato un anno da quando i grandi della Terra hanno prima capito e ammesso che la mancanza di un sistema globale di regole per il mondo finanziario era stato uno dei motivi fondamentali dell’esplosione della crisi, poi promesso che ci avrebbero messo rimedio varando una governance capace di evitare il ripetersi degli errori. Un anno in cui si sono susseguiti molti annunci ma quasi nessun fatto. Esattamente come accade puntualmente ormai da tempo immemorabile nelle ridondanti assemblee delle Nazioni Unite, dove ci si divide persino sugli auspici di un “mondo migliore” proprio come è accaduto nelle scorse ore nel “palazzo di vetro”. E siccome finita la 64ma assemblea Onu inizia l’atteso G20 di Pittsburgh, ecco che lo spettro dell’impotenza del primo summit rischia di proiettarsi minaccioso sul secondo (ben più importante).
In effetti, l’agenda delle “grandi riforme” è rimasta la stessa, anche se nel frattempo gli Stati Uniti hanno varato per i fatti loro un ponderoso documento rifondativo del sistema finanziario e bancario e la Commissione europea – ripreso coraggio dopo l’appannamento seguito al prepotente quanto sterile riemergere del ruolo dei singoli stati europei, nel pieno della crisi – ha presentato un pacchetto di proposte relative alla vigilanza sul funzionamento dei mercati, ipotizzando la nascita su base continentale di due nuovi organismi di controllo, uno per la vigilanza macro-prudenziale e uno per quella micro-prudenziale. Poca cosa, se si considera che un po’ tutti si erano detti d’accordo a intervenire sui requisiti patrimoniali delle banche, e dunque sul principale fattore di crisi (quella già verificatasi) e di rischio futuro (un eventuale secondo tempo della crisi finanziaria) rappresentato dall’eccesso della “leva” (il rapporto tra il capitale delle banche e i denari prestati, sceso solo di 3-4 punti rispetto alle punte pre-crisi, e quindi ancora mediamente tra le 20 e le 30 volte). Così come ci si era detti convinti di stabilire regole uniche per stipendi e bonus, al di qua e al di là dell’Atlantico. Non parliamo poi di nuovi organismi internazionali d’intervento e di controllo, o quantomeno della riforma e unificazione degli esistenti: è inutile anche ragionarne, se prima non si sono stabilite le regole che questi soggetti dovrebbero applicare.
Insomma, Pittsburgh anno zero? Sì, ma con una premessa positiva di cui altri vertici non avevano potuto godere: la dichiarazione, politicamente molto impegnativa, di Obama circa il fatto che “gli Usa da soli non ce la possono fare”. Certo, la frase è stata pronunciata proprio nel suo intervento all’Onu, sede appunto dei buoni principi accompagnati da pochi fatti, e probabilmente è stata pensata più per le questioni politico-militari e ambientali che non per quelle economico-finanziarie (terreno su cui Obama e gli Usa hanno mostrato più propensione al protezionismo, come dimostrano i dazi su alcuni prodotti importati, piuttosto che alla collaborazione internazionale). Tuttavia è stata detta, e volendola prendere per buona può davvero chiudere la lunga stagione dell’unilateralismo e aprirne una nuova, più votata al multilateralismo. E se così fosse, c’è una tematica, quella della riforma del sistema monetario internazionale – che io considero la “questione delle questioni” per uscire definitivamente e virtuosamente dalla crisi – che potrebbe e dovrebbe essere messa sul tavolo a Pittsburgh, con il doppio vantaggio di “prendere le misure” a Obama e di porre all’attenzione del G20 il vero snodo della “nuova governance” globale.
Se ci fosse l’Europa, dovrebbe essere essa a porre la questione. In subordine, qualche leader continentale più attrezzato e forte di altri. E l’occasione è proprio il discorso di Obama all’Onu: “caro Presidente, visto che tu stesso hai dichiarato la fine dell’unilateralismo” – bisognerebbe dire – “ora non puoi più prescindere da una discussione approfondita sul ruolo del dollaro”. Del resto, che il biglietto verde non sia più in grado di essere l’unica valuta di riferimento internazionale, lo provano diversi sintomi: l’accordo tra Cina e Brasile per eliminarlo come moneta di pagamento del loro commercio bilaterale; la creazione di una divisa del Golfo che entrerà in vigore l’anno prossimo tra Arabia Saudita, Emirati, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein; l’omologa creazione monetaria comune, seppur più complessa e lenta, tra Cina, Giappone e Corea del Sud. E, cosa ancor più dirompente, lo dimostra il “warning” lanciato dalla Banca Popolare cinese, che mira ad abbandonare il “dollar standard” per passare ad una grande divisa mondiale, o a un paniere di poche divise continentali tra loro collegate, da far nascere sotto l’egida di un nuovo Fondo Monetario. E’ chiaro che di fronte a tutti questi sintomi, pensare di continuare nella “fiction” di un mondo sorretto dal dollaro, sarebbe un errore madornale.
Insomma, serve una Bretton Woods III. Sì, non è un refuso: la seconda fase del grande accordo monetario mondiale esiste già di fatto, anche se non sancita formalmente, da quando i paesi asiatici emergenti hanno copiato Europa e Giappone nell’agganciarsi al dollaro come è stato nel dopoguerra (in particolare la Cina, che tiene la sua divisa volutamente sottovalutata per lasciar correre le esportazioni, e nel frattempo si è riempita di titoli del debito americano). Ma anche questo è un sistema che non regge più: la fiducia nel biglietto verde risente, e sempre più risentirà, dell’attuale crisi finanziaria, e la Cina non potrà tenere sottovalutata all’infinito la sua divisa. Per questo serve una grande riforma dei cambi, che non si limiti a fotografare l’esistente, ma che abbia il coraggio di uno scatto in avanti affiancando alla moneta Usa altre divise forti, tra loro collegate come lo erano le divise europee all’epoca dello Sme. Un’utopia? No, una necessità. Che può essere perseguita solo se il resto del mondo smetterà di celebrare Obama come una star mediatica, e passerà a fare politica interloquendo alla pari. Che poi è l’unico modo, vero, di prenderlo sul serio.
In effetti, l’agenda delle “grandi riforme” è rimasta la stessa, anche se nel frattempo gli Stati Uniti hanno varato per i fatti loro un ponderoso documento rifondativo del sistema finanziario e bancario e la Commissione europea – ripreso coraggio dopo l’appannamento seguito al prepotente quanto sterile riemergere del ruolo dei singoli stati europei, nel pieno della crisi – ha presentato un pacchetto di proposte relative alla vigilanza sul funzionamento dei mercati, ipotizzando la nascita su base continentale di due nuovi organismi di controllo, uno per la vigilanza macro-prudenziale e uno per quella micro-prudenziale. Poca cosa, se si considera che un po’ tutti si erano detti d’accordo a intervenire sui requisiti patrimoniali delle banche, e dunque sul principale fattore di crisi (quella già verificatasi) e di rischio futuro (un eventuale secondo tempo della crisi finanziaria) rappresentato dall’eccesso della “leva” (il rapporto tra il capitale delle banche e i denari prestati, sceso solo di 3-4 punti rispetto alle punte pre-crisi, e quindi ancora mediamente tra le 20 e le 30 volte). Così come ci si era detti convinti di stabilire regole uniche per stipendi e bonus, al di qua e al di là dell’Atlantico. Non parliamo poi di nuovi organismi internazionali d’intervento e di controllo, o quantomeno della riforma e unificazione degli esistenti: è inutile anche ragionarne, se prima non si sono stabilite le regole che questi soggetti dovrebbero applicare.
Insomma, Pittsburgh anno zero? Sì, ma con una premessa positiva di cui altri vertici non avevano potuto godere: la dichiarazione, politicamente molto impegnativa, di Obama circa il fatto che “gli Usa da soli non ce la possono fare”. Certo, la frase è stata pronunciata proprio nel suo intervento all’Onu, sede appunto dei buoni principi accompagnati da pochi fatti, e probabilmente è stata pensata più per le questioni politico-militari e ambientali che non per quelle economico-finanziarie (terreno su cui Obama e gli Usa hanno mostrato più propensione al protezionismo, come dimostrano i dazi su alcuni prodotti importati, piuttosto che alla collaborazione internazionale). Tuttavia è stata detta, e volendola prendere per buona può davvero chiudere la lunga stagione dell’unilateralismo e aprirne una nuova, più votata al multilateralismo. E se così fosse, c’è una tematica, quella della riforma del sistema monetario internazionale – che io considero la “questione delle questioni” per uscire definitivamente e virtuosamente dalla crisi – che potrebbe e dovrebbe essere messa sul tavolo a Pittsburgh, con il doppio vantaggio di “prendere le misure” a Obama e di porre all’attenzione del G20 il vero snodo della “nuova governance” globale.
Se ci fosse l’Europa, dovrebbe essere essa a porre la questione. In subordine, qualche leader continentale più attrezzato e forte di altri. E l’occasione è proprio il discorso di Obama all’Onu: “caro Presidente, visto che tu stesso hai dichiarato la fine dell’unilateralismo” – bisognerebbe dire – “ora non puoi più prescindere da una discussione approfondita sul ruolo del dollaro”. Del resto, che il biglietto verde non sia più in grado di essere l’unica valuta di riferimento internazionale, lo provano diversi sintomi: l’accordo tra Cina e Brasile per eliminarlo come moneta di pagamento del loro commercio bilaterale; la creazione di una divisa del Golfo che entrerà in vigore l’anno prossimo tra Arabia Saudita, Emirati, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein; l’omologa creazione monetaria comune, seppur più complessa e lenta, tra Cina, Giappone e Corea del Sud. E, cosa ancor più dirompente, lo dimostra il “warning” lanciato dalla Banca Popolare cinese, che mira ad abbandonare il “dollar standard” per passare ad una grande divisa mondiale, o a un paniere di poche divise continentali tra loro collegate, da far nascere sotto l’egida di un nuovo Fondo Monetario. E’ chiaro che di fronte a tutti questi sintomi, pensare di continuare nella “fiction” di un mondo sorretto dal dollaro, sarebbe un errore madornale.
Insomma, serve una Bretton Woods III. Sì, non è un refuso: la seconda fase del grande accordo monetario mondiale esiste già di fatto, anche se non sancita formalmente, da quando i paesi asiatici emergenti hanno copiato Europa e Giappone nell’agganciarsi al dollaro come è stato nel dopoguerra (in particolare la Cina, che tiene la sua divisa volutamente sottovalutata per lasciar correre le esportazioni, e nel frattempo si è riempita di titoli del debito americano). Ma anche questo è un sistema che non regge più: la fiducia nel biglietto verde risente, e sempre più risentirà, dell’attuale crisi finanziaria, e la Cina non potrà tenere sottovalutata all’infinito la sua divisa. Per questo serve una grande riforma dei cambi, che non si limiti a fotografare l’esistente, ma che abbia il coraggio di uno scatto in avanti affiancando alla moneta Usa altre divise forti, tra loro collegate come lo erano le divise europee all’epoca dello Sme. Un’utopia? No, una necessità. Che può essere perseguita solo se il resto del mondo smetterà di celebrare Obama come una star mediatica, e passerà a fare politica interloquendo alla pari. Che poi è l’unico modo, vero, di prenderlo sul serio.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.