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Voci di ripresa e governo in bilico

Piano Marshall

Quello che serve all'Italia è continuità politica e discontinuità programmativa

di Enrico Cisnetto - 13 settembre 2013

L’infinita guerra tra ottimisti e pessimisti che divide l’Italia da sempre, ora vede in battaglia i “convinti” e gli “scettici” circa la ripresa in atto. Per la verità gli eserciti in campo sono più di due: bisogna aggiungere, in mezzo tra i due estremi, i “cauti”, per i quali salomonicamente ci sono pro e contro, i “prudenti”, secondo cui i segnali di ripartenza ci sono ma non così tanti da dare per scontato che i bagliori in fondo al tunnel siano piena luce, e i “preoccupati”, che sono convinti che la ripresa sia già in atto ma temono che l’instabilità politica generata dal “caso Berlusconi”, e registrata dai sismografi dello spread, finisca per comprometterla.

Infine, ci sono, pochi ma buoni, i “benaltristi”, partito a cui personalmente mi sento vicino. Parlo di quelli che trovano assurdo questo scontro di sensazioni, pensano che in gioco ci sia non la ripresa (che vuol dire che il pil torna a crescere) bensì al massimo la fine della recessione – non è la stessa cosa, nel secondo caso, dopo, ci sarebbe la “crescita zero” – e di conseguenza sono convinti che ci voglia “ben altro” per rimettere in moto la macchina ferma e arrugginita della nostra economia. Ma, soprattutto, costoro credono che il pericolo dell’instabilità sia di non minor conto di quello dell’immobilismo, che purtroppo è fin qui una certezza, essendo la cifra dei due governi “politicamente indispensabili” ma deludenti, Monti e Letta, che avrebbero dovuto portarci fuori dalla palude del bipolarismo e di conseguenza dalla crisi economica.

Qui non si tratta di stabilire se c’è o meno la ripresa, anche perché gli ultimi dati, a dispetto di un improvviso ottimismo della Confindustria che suona più come “contributo” alla continuità del governo Letta che come convinto cambiamento di valutazioni sul ciclo economico, s’incaricano di tagliare la testa al toro: a luglio un calo della produzione industriale forte come non succedeva da un anno (-4,3% rispetto al 2012), con una contrazione che porta il livello dell’attività produttiva al punto più basso dall’aprile 2009 e una discesa generalizzata che tocca, eccetto il tessile, tutti i settori. Tuttavia, anche nella più rosea delle previsioni – fatta propria da chi attribuisce la massima importanza al cosiddetto “super-indice Ocse” che nel caso dell’Italia ha superato fatidica soglia di “quota 100” ad aprile, per cui sarebbe lecito attendersi entro sei mesi (quindi ottobre) il ritorno del segno “più” nell’andamento del pil tanto da indurre la stessa Ocse a parlare di “positive change of momentum” – la crescita accreditata per il 2014 potrebbe essere dello 0,8%, un livello non sufficiente per far compiere al paese un’inversione a U e che se anche si dovesse consolidare negli anni successivi tra il punto e il punto e mezzo annuo ci costringerebbe ad attendere il 2020 per recuperare interamente i 10 punti di ricchezza persi dal 2008 ad oggi, portandoci peraltro ad una situazione pre-crisi mondiale allora per nulla soddisfacente (dal 1992 al 2007 avevamo perso 15 punti di pil nei confronti della Ue e 35 nei confronti degli Usa). No, qui si tratta di capire che per le condizioni di declino e di prostrazione psicologica che l’Italia ha raggiunto, quelle intorno alla luce in fondo al tunnel sono masturbazioni mentali punto e basta. E che per uscire davvero dal disastro in cui siamo precipitati occorre una rivoluzione copernicana nella politica economica di cui non si intravede nemmeno l’ombra (altro che la luce…).

Parlo della fine dell’infinita stagione della spesa pubblica corrente, e dell’inizio virtuoso di una fase di investimenti strategici, pubblici e privati, che consentano di ridare un’ossatura al nostro sistema produttivo e terziario. Cosa per la quale occorre un “piano Marshall” così straordinario da mettere in campo sia la valorizzazione finanziario del patrimonio pubblico sia il coinvolgimento, non punitivo (anzi) ma comunque obbligatorio, del patrimonio privato. Tutte cose di cui, tra la stucchevole discussione sull’agibilità politica di Berlusconi e l’inutile evocazione della ripresa, non si parla neppure. Anzi, la condivisa decisione – qui nessuno, nel Pdl e nel Pd, ha protestato – di regolarizzare 100 mila precari nella scuola, ci dice come la pratica della moltiplicazione della spesa corrente, e per di più con solita modalità anti-meritocratica, sia più che mai in auge.

Insomma, qui non si tratta di accondiscendere né alla luddistica pretesa berlusconiana di rompere tutto per salvare se stesso (che intanto così non può comunque essere), né a quella dei governativi di soggiacere alla politica dei piccoli passi nella speranza (infondata) che sia il mezzo migliore per tirare avanti. All’Italia non serve né spaccare tutto né stabilizzare l’immobilismo. Al contrario, quello di cui in questo momento abbiamo bisogno è un mix di continuità politica (governo Letta) e discontinuità programmatica. Mentre il rischio che si corre è, nel migliore dei casi, una continuità su entrambi i fronti, e nel peggiore dei casi un’inversione: discontinuità politica e continuità programmatica.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.