Segnali di ripresa
Per favore, non illudiamoici
Qualche segnale positivo, dovuto alla crescita mondiale, non ci esime da un grande piano d'azione per la nostra economiadi Enrico Cisnetto - 22 gennaio 2014
È abbastanza probabile che nell’ultimo trimestre del 2013 l’Italia sia formalmente uscita dalla recessione. Uno o due decimali sopra lo zero che lasciano poco sotto il 2% (quasi certamente -1,8%) il risultato negativo dell’intero anno, ma che pur sempre segnalano un’inversione di tendenza. Trend che si dovrebbe consolidare nel 2014 e 2015 con rispettivamente un +0,7% e +1% (previsione Bankitalia di questa settimana) o addirittura +1,2% per l’anno prossimo (stime antecedenti di Confindustria). Bene, dopo quattro anni di recessione negli ultimi sei (dal 2008 le uniche eccezioni sono state il 2010 e il 2011), rivedere il segno più è confortante.
Ma è sufficiente? No. Assolutamente no. Si tratta di percentuali di crescita che fanno prefigurare che non si riesca a tornare al livello di sviluppo pre-crisi (quello del 2007, peraltro insufficiente) prima del 2020. E che non sono altresì in grado di modificare il quadro di precarietà sociale, che denuncia un tasso di disoccupazione elevato e insopportabilmente alto nella fascia giovanile e al Sud, cui si aggiunge un livello record della cassa integrazione (costata nel 2013 ben 4,1 miliardi), e aree di povertà crescenti. Né del nostro capitalismo, la cui difficoltà è dimostrata anche dal calo dell’unica variabile economica rimasta finora positiva, l’export (a novembre -1,9% su ottobre e -3,4% su base annua, che diventa -6,7% se si guarda l’andamento tendenziale dei flussi con i paesi extra Ue).
Cosa servirebbe, invece? Diciamo che se il pil mondiale è cresciuto del 2,9% nel 2013 ed è destinato a salire del 3,6% nel 2014 (stime Fmi) e se il commercio mondiale dovesse mantenere i ritmi di questi anni pur difficili (tra il 2008 e il 2013 è cresciuto dell’11%), per noi l’obiettivo minimo di crescita non può che essere del 2% nel 2014 e del 3% nel 2015. Dunque, a politiche invariate, e supponendo che le previsioni della Banca d’Italia siano corrette (di solito sono le più precise), occorrerebbe produrre 1,3 punti di crescita in più quest’anno e due tondi tondi l’anno prossimo.
È difficile, ma si può fare. Come? L’ideale sarebbe un cambio di strategia dell’Europa: basta con le politiche deflattive, allentamento del tasso di cambio, via ad un piano che rilanci i consumi interni (quel poco di crescita dell’eurozona è tutta d’importazione). Nell’attesa – che, temo, sarà lunga e piuttosto inutile – dobbiamo pensarci noi. Prima di tutto, abbandonando la politica dei piccoli passi e immaginando un piano Marshall di salvezza e rilancio nazionale. Non andando contro l’Europa – il nostro debito non ce lo consente e comunque non ne avremmo la forza – ma mettendo in campo quelle riforme strutturali che ci darebbero la credibilità necessaria per negoziare con Bruxelles e Berlino un allentamento dei vincoli relativi al deficit (basterebbe un punto in più, oltre al pagamento integrale e immediato dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese che ci hanno già approvato). Sto dunque pensando a politiche liberal-keynesiane, opposte sia a quelle liberiste che a quelle populiste fin qui adottate dal partito trasversale della spesa pubblica. Politiche, cioè, che trasformino quote importanti di spesa corrente improduttiva in investimenti in conto capitale, e che mettano il patrimonio pubblico e quello privato al servizio dello sviluppo. Le idee non mancano. Serve volontà politica. (twitter @ecisnetto)
Ma è sufficiente? No. Assolutamente no. Si tratta di percentuali di crescita che fanno prefigurare che non si riesca a tornare al livello di sviluppo pre-crisi (quello del 2007, peraltro insufficiente) prima del 2020. E che non sono altresì in grado di modificare il quadro di precarietà sociale, che denuncia un tasso di disoccupazione elevato e insopportabilmente alto nella fascia giovanile e al Sud, cui si aggiunge un livello record della cassa integrazione (costata nel 2013 ben 4,1 miliardi), e aree di povertà crescenti. Né del nostro capitalismo, la cui difficoltà è dimostrata anche dal calo dell’unica variabile economica rimasta finora positiva, l’export (a novembre -1,9% su ottobre e -3,4% su base annua, che diventa -6,7% se si guarda l’andamento tendenziale dei flussi con i paesi extra Ue).
Cosa servirebbe, invece? Diciamo che se il pil mondiale è cresciuto del 2,9% nel 2013 ed è destinato a salire del 3,6% nel 2014 (stime Fmi) e se il commercio mondiale dovesse mantenere i ritmi di questi anni pur difficili (tra il 2008 e il 2013 è cresciuto dell’11%), per noi l’obiettivo minimo di crescita non può che essere del 2% nel 2014 e del 3% nel 2015. Dunque, a politiche invariate, e supponendo che le previsioni della Banca d’Italia siano corrette (di solito sono le più precise), occorrerebbe produrre 1,3 punti di crescita in più quest’anno e due tondi tondi l’anno prossimo.
È difficile, ma si può fare. Come? L’ideale sarebbe un cambio di strategia dell’Europa: basta con le politiche deflattive, allentamento del tasso di cambio, via ad un piano che rilanci i consumi interni (quel poco di crescita dell’eurozona è tutta d’importazione). Nell’attesa – che, temo, sarà lunga e piuttosto inutile – dobbiamo pensarci noi. Prima di tutto, abbandonando la politica dei piccoli passi e immaginando un piano Marshall di salvezza e rilancio nazionale. Non andando contro l’Europa – il nostro debito non ce lo consente e comunque non ne avremmo la forza – ma mettendo in campo quelle riforme strutturali che ci darebbero la credibilità necessaria per negoziare con Bruxelles e Berlino un allentamento dei vincoli relativi al deficit (basterebbe un punto in più, oltre al pagamento integrale e immediato dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese che ci hanno già approvato). Sto dunque pensando a politiche liberal-keynesiane, opposte sia a quelle liberiste che a quelle populiste fin qui adottate dal partito trasversale della spesa pubblica. Politiche, cioè, che trasformino quote importanti di spesa corrente improduttiva in investimenti in conto capitale, e che mettano il patrimonio pubblico e quello privato al servizio dello sviluppo. Le idee non mancano. Serve volontà politica. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.