Un obiettivo programmatico
Partito della ricostruzione
Lasciata in macerie morali e materiali da un ventennio di non governo, l'Italia necessita di una profonda ricostruzionedi Enrico Cisnetto - 21 aprile 2012
Meglio tardi che mai, e speriamo che questa sia la volta buona. Non voglio minimizzare, come ha fatto il mio amico Stefano Folli, l’uscita di Casini sul costituendo “partito della nazione”, che suggerirei di ribattezzare “partito della ricostruzione” (copywrite Giorgio La Malfa), né sottovalutare la portata dell’iniziativa presa da Pisanu, tesa a creare un ponte tra coloro che considerano conclusa l’esperienza del Pdl ma soprattutto quella della Seconda Repubblica nel suo insieme e il Terzo Polo. Ma essendo oltre tre anni che nell’Udc si sta maneggiando il progetto teso ad “andare oltre” per poter costituire non tanto un nuovo partito quanto un “partito nuovo”, necessariamente diverso da quelli “pesanti” della Prima Repubblica ma distante anni luce da quelli finti e leaderistici della Seconda, un po’ di scetticismo – sano, non qualunquista – credo sia naturale e per certi versi persino opportuno. A me personalmente, poi, me lo sia consentito, visto che in tutte le sedi e con ogni mezzo a mia disposizione – a cominciare dal movimento d’opinione che presiedo, Società Aperta, precursore di scelte che con colpevole ritardo oggi sono all’ordine del giorno – ho detto e ridetto, di fatto inascoltato, che all’area moderata e a quella riformista andava offerta la possibilità di riaggregazioni inedite, capaci anche di superare la vecchia ma mai sanata dicotomia tra laici e cattolici.
Sia chiaro, quella che Società Aperta indicava non era un’operazione di pura alchimia politica, tutta interna al sistema esistente, ma un’iniziativa da prendere dentro la società civile, parlando un linguaggio di verità agli italiani. La necessità era antica, risaliva alla maledetta stagione di Tangentopoli e nasceva dal bagaglio di incongruenze, ipocrisie e illusioni con cui da quella fase si è usciti, ma lo spazio di praticabilità si era aperto con tutta evidenza nel 2006, quando dopo due legislature piene fatte da centro-sinistra (1996-2001) e centro-destra (2001-2006), era chiaro che quell’alternanza – tanto invocata dai cantori del bipolarismo, incapaci di capire che un paese privo di alcuna omogeneità (territoriale, culturale, sociale) non poteva essere governato da un sistema politico costruito sulla spaccatura netta tra chi vince (prende tutto) e chi perde (aspetta il turno successivo) – non poteva dare frutti. Allora l’Udc era ancora, seppure con molti mal di pancia, dentro lo schieramento berlusconiano, mentre dall’altra doveva ancora nascere il Pd ed era la Margherita che poteva, e avrebbe dovuto, rompere il gioco bipolare. Non è un caso che nel corso del 2005 il sottoscritto e l’amico Savino Pezzotta andammo dall’allora presidente di Confindustria (e della Fiat) Montezemolo per chiedergli di mettersi alla testa di una lista che all’insegna del “né con Prodi, né con Berlusconi” cogliesse la stanchezza che già c’era nella società, non certo affascinata dall’idea di ritrovarsi i due premier invecchiati di dieci anni rispetto al 1996 dopo un’elezione persa ciascuno, e che attraverso una lista “terza” mettesse il piede in mezzo alla porta per far saltare gli equilibri. Purtroppo la cosa non accadde, mentre il “sostanziale pareggio” della primavera del 2006, di cui Prodi sciaguratamente si rifiutò di prendere atto, confermò in modo clamoroso che se l’operazione fosse stata fatta avrebbe mietuto un grande successo.
Persa quell’occasione storica, abbiamo buttato via cinque anni – anzi, i cinque anni decisivi perché caratterizzati dalla più grande crisi economico-finanziaria che il mondo abbia conosciuto dopo quella del 1929 – senza che il sistema politico mostrasse la ben che minima capacità di rigenerarsi. Certo, l’Udc è stato l’unico partito che si è chiamato fuori dal gioco bipolare, e di questo occorre rendergli merito. Ma che quel passo non bastasse era chiaro, e i reiterati annunci di voler costituire un nuovo soggetto politico, fino al passaggio al cosiddetto Terzo Polo – nome programmaticamente sbagliato, ma che alle fine è rimasto – stanno lì a dimostrarlo. Ora, dopo il passo costituente compiuto ieri, il nuovo traguardo è la creazione di un soggetto che deve essere “centrale” ma non “centrista”, nel senso di avere la possibilità e capacità di attrarre tanto l’elettorato moderato (quello privo di spinte giustizialiste e populiste) quanto quello riformista (cioè senza tentazioni massimaliste). Perché il tema non è la riverniciatura dei due poli – come fa presumere lo strano preannuncio da parte di Alfano di grandiose novità che, guarda caso, farà Berlusconi, e che molti scommettono coinvolgerà Montezemolo – ma il loro superamento, attraverso un partito “architrave del sistema” che consenta di marginalizzare e politicamente sterilizzare le ali. Ricordo che in questi anni ho suggerito ai cattolici già presenti nell’Udc e che verso di essa potevano essere attratti (per esempio i popolari, o almeno una parte di essi, ora nel Pd) come pure ai laici dalle cui file provengo, di dar vita a quello che ho chiamato un “partito holding”, cioè capace di raggruppare molte realtà politiche, associative e culturali senza che nessuna di queste debba rinunciare al proprio nome, bandiera, radicamento. I soggetti costituenti rimangano, ma diano vita ad un soggetto che si presenterà al cospetto dei cittadini cementato da un programma di governo da cui sono escluse le tematiche di natura etica, che non devono essere prerogative dei governi ma dei parlamenti, e quindi sono affidate alle personali sensibilità dei singoli parlamentari (agli italiani, cui occorre ridare la libertà di preferenza, il compito di scegliere i candidati).
Obiettivo programmatico: ricostruire il paese, lasciato in macerie morali e materiali da un ventennio di non governo. Il vero problema, però, è il nuovo soggetto deve saper (ri)conquistare la fiducia di cittadini che non sono più disposti a concederla a chi ha militato nel bipolarismo malato che ha ridotto il paese in queste condizioni. Cittadini che senza una nuova offerta politica finiranno per astenersi o per usare il voto di protesta. Ecco, è qui che si gioca partita: la sfida è quella di saper uscire dalla logica del mettere insieme pezzi di politica esistente, e di saper aprire le porta alla società civile. Aspettiamo fiduciosi.
Sia chiaro, quella che Società Aperta indicava non era un’operazione di pura alchimia politica, tutta interna al sistema esistente, ma un’iniziativa da prendere dentro la società civile, parlando un linguaggio di verità agli italiani. La necessità era antica, risaliva alla maledetta stagione di Tangentopoli e nasceva dal bagaglio di incongruenze, ipocrisie e illusioni con cui da quella fase si è usciti, ma lo spazio di praticabilità si era aperto con tutta evidenza nel 2006, quando dopo due legislature piene fatte da centro-sinistra (1996-2001) e centro-destra (2001-2006), era chiaro che quell’alternanza – tanto invocata dai cantori del bipolarismo, incapaci di capire che un paese privo di alcuna omogeneità (territoriale, culturale, sociale) non poteva essere governato da un sistema politico costruito sulla spaccatura netta tra chi vince (prende tutto) e chi perde (aspetta il turno successivo) – non poteva dare frutti. Allora l’Udc era ancora, seppure con molti mal di pancia, dentro lo schieramento berlusconiano, mentre dall’altra doveva ancora nascere il Pd ed era la Margherita che poteva, e avrebbe dovuto, rompere il gioco bipolare. Non è un caso che nel corso del 2005 il sottoscritto e l’amico Savino Pezzotta andammo dall’allora presidente di Confindustria (e della Fiat) Montezemolo per chiedergli di mettersi alla testa di una lista che all’insegna del “né con Prodi, né con Berlusconi” cogliesse la stanchezza che già c’era nella società, non certo affascinata dall’idea di ritrovarsi i due premier invecchiati di dieci anni rispetto al 1996 dopo un’elezione persa ciascuno, e che attraverso una lista “terza” mettesse il piede in mezzo alla porta per far saltare gli equilibri. Purtroppo la cosa non accadde, mentre il “sostanziale pareggio” della primavera del 2006, di cui Prodi sciaguratamente si rifiutò di prendere atto, confermò in modo clamoroso che se l’operazione fosse stata fatta avrebbe mietuto un grande successo.
Persa quell’occasione storica, abbiamo buttato via cinque anni – anzi, i cinque anni decisivi perché caratterizzati dalla più grande crisi economico-finanziaria che il mondo abbia conosciuto dopo quella del 1929 – senza che il sistema politico mostrasse la ben che minima capacità di rigenerarsi. Certo, l’Udc è stato l’unico partito che si è chiamato fuori dal gioco bipolare, e di questo occorre rendergli merito. Ma che quel passo non bastasse era chiaro, e i reiterati annunci di voler costituire un nuovo soggetto politico, fino al passaggio al cosiddetto Terzo Polo – nome programmaticamente sbagliato, ma che alle fine è rimasto – stanno lì a dimostrarlo. Ora, dopo il passo costituente compiuto ieri, il nuovo traguardo è la creazione di un soggetto che deve essere “centrale” ma non “centrista”, nel senso di avere la possibilità e capacità di attrarre tanto l’elettorato moderato (quello privo di spinte giustizialiste e populiste) quanto quello riformista (cioè senza tentazioni massimaliste). Perché il tema non è la riverniciatura dei due poli – come fa presumere lo strano preannuncio da parte di Alfano di grandiose novità che, guarda caso, farà Berlusconi, e che molti scommettono coinvolgerà Montezemolo – ma il loro superamento, attraverso un partito “architrave del sistema” che consenta di marginalizzare e politicamente sterilizzare le ali. Ricordo che in questi anni ho suggerito ai cattolici già presenti nell’Udc e che verso di essa potevano essere attratti (per esempio i popolari, o almeno una parte di essi, ora nel Pd) come pure ai laici dalle cui file provengo, di dar vita a quello che ho chiamato un “partito holding”, cioè capace di raggruppare molte realtà politiche, associative e culturali senza che nessuna di queste debba rinunciare al proprio nome, bandiera, radicamento. I soggetti costituenti rimangano, ma diano vita ad un soggetto che si presenterà al cospetto dei cittadini cementato da un programma di governo da cui sono escluse le tematiche di natura etica, che non devono essere prerogative dei governi ma dei parlamenti, e quindi sono affidate alle personali sensibilità dei singoli parlamentari (agli italiani, cui occorre ridare la libertà di preferenza, il compito di scegliere i candidati).
Obiettivo programmatico: ricostruire il paese, lasciato in macerie morali e materiali da un ventennio di non governo. Il vero problema, però, è il nuovo soggetto deve saper (ri)conquistare la fiducia di cittadini che non sono più disposti a concederla a chi ha militato nel bipolarismo malato che ha ridotto il paese in queste condizioni. Cittadini che senza una nuova offerta politica finiranno per astenersi o per usare il voto di protesta. Ecco, è qui che si gioca partita: la sfida è quella di saper uscire dalla logica del mettere insieme pezzi di politica esistente, e di saper aprire le porta alla società civile. Aspettiamo fiduciosi.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.